Bettino Craxi è un personaggio contradditorio, difficile, complesso. Da studiare e analizzare sine ira et studio. Con equilibrio e serietà. Con giusta, fredda distanza. Senza sconti ma con rispetto e attenzione. Al netto dei clamori delle opposte tifoserie, delle apologie delle prefiche e degli insulti lanciati dalla lugubre pedonaglia di detrattori, voltagabbana, avvoltoi, Craxi rappresenta un momento centrale e ineludibile della nostra travagliata storia unitaria e, allo stesso tempo, una questione irrisolta e divisiva. Un problema aperto. Una ferita non rimarginata.
Per i post-comunisti, più o meno scoloriti ma irriducibilmente faziosi, il “Cinghialone” resta un argomento tabù e ogni ipotesi di discussione si trasforma subitamente in una spietata corrida con tanto di bandarilleros pronti ad infilzare il malcapitato di turno. Ne fece le spese nel 2003 Pietro Fassino, al tempo segretario dei Ds, quando nelle sue precoci memorie — “Per passione”, editato da Rizzoli — osò scrivere che Craxi aveva ragione e Berlinguer torto marcio.
Un giudizio amaro quanto coraggioso — e storicamente obbiettivo — che scatenò sullo sconcertato Fassino le ire delle vestali di Botteghe Oscure e dintorni. Tra tutti Aldo Tortorella, Rossana Rossanda e Massimo D’Alema (che però, quattordici anni dopo, riconobbe, in odio a Matteo Renzi, la statura di “statista” allo scomparso leader socialista). Al loro fianco, livoroso come d’abitudine, Eugenio Scalfari con “Repubblica” e i soliti zeloti del moralismo d’accatto.
Nessuno o quasi fra gli ex o post comunisti poteva e voleva — e tanto meno può e vuole — dimenticare il durissimo duello ingaggiato a sinistra da Craxi. Una strategia offensiva su tutti i fronti: in Parlamento contro il compromesso storico tra DC e PCI e “l’arco costituzionale”, sul terreno ideologico Proudhon e Garibaldi contro Marx e Gramsci, in campo istituzionale con “la grande riforma” e in politica estera gli euromissili e una nuova attenzione verso il mondo arabo e il Mediterraneo. Sullo sfondo poi la ripetuta denuncia craxiana degli imbarazzanti, ma molto ghiotti, finanziamenti al PCI da Mosca sovietica. Da qui la lunga, feroce (e mai conclusa) “guerra civile” tra le due principali forze della sinistra nostrana.
Altro nodo spinoso fu il rapporto tra il segretario del PSI e la Destra italiana. Un argomento spesso sottostimato o rimosso ma non marginale. Anzi. E qui l’importanza di “Il garofano e la fiamma. L’incontro mancato tra Craxi e la destra italiana”, una bella ricerca pioneristica ma molto attenta di Tommaso de Brabant, giovane ricercatore e brillante intelligenza (oltre che ottima penna di Destra.it), su un intreccio politico, teorico ma anche umano dai tanti e inattesi risvolti.
Craxi, uomo di Sinistra, non solo diede, dopo un lunghissimo purgatorio, piena dignità agli “esuli in Patria” Missini ma immaginò nuovi scenari che scardinavano gli obsoleti recinti del già ricordato “arco costituzionale” antifascista, la Conventio ad excludendum che vietava al Movimento Sociale ogni interlocuzione con le altre forze politiche.
Nel luglio 1983, come ben raccontato e ricostruito dall’autore, il primo incontro ufficiale di un prossimo inquilino di Palazzo Chigi con una delegazione del MSI. Un Socialista, anomalo ma pervicacemente “compagno” che scandalosamente riceveva nella sede più alta e nobile della “Repubblica nata dalla resistenza” i reietti, gli impresentabili, i Fascisti. Riprendendo la testimonianza di Massimo Pini — altro personaggio centrale della vicenda del Garofano — de Brabant fissa così un passaggio centrale della storia politica italiana:
«Nel 1983 Craxi ripeté la procedura del 1979, con la sfilata delle delegazioni dei partiti davanti al presidente incaricato, nella sala riservata ai presidenti del Consiglio a Montecitorio: un fatto senza precedenti. più clamorosa fu la decisione d’ammettere alle consultazioni il Movimento Sociale Italiano: in un’intervista a Gustavo Selva del “Gazzettino” il 27 aprile 1984, il segretario missino Giorgio Almirante ricordò che “l’onorevole Craxi, di sua iniziativa […] ebbe a dire, testualmente, che non aveva mai considerata corretta nei nostri confronti la politica dell’arco costituzionale, e che era suo intendimento abolire ogni ghettizzazione nei confronti di qualsivoglia forza politica presente in parlamento”. Almirante ringraziò, prese atto e promise una “opposizione costruttiva”. Era stata così sfatata da Craxi la formula inventata da Ciriaco De Mita, che emarginando la Destra postfascista favoriva i comunisti. “Una dichiarazione storica”, la definirà Piero Ignazi».
Fu l’inizio di un rapporto intermittente e contradditorio che trovò i dirigenti Missini — come questo libro ottimamente documenta — oscillanti, indecisi e sommamente guardinghi davanti all’impetuoso e spiazzante attivismo craxiano. Spieghiamo. Almirante e Romualdi, i dioscuri del Pantheon tricolore, erano anziani, già malati e troppo, troppo stanchi per affrontare una nuova stagione politica.
Nonostante una serie incontri e confronti importanti — da Roma a Milano, da Amalfi a Rimini e oltre—, o la tiepida adesione al referendum sulla giustizia del ’87 —i capi missini ripiegarono su posizioni apparentemente consolidate quanto fragili. Sepolti nel 1988 Almirante e Romualdi, né Gianfranco Fini né tanto meno Pino Rauti ebbero il coraggio politico d’invertire la rotta, ritessere un filo e fissare coordinate innovative. Il risultato fu, come de Brabant analizza, un “incontro mancato” che si trasformò, nel clima avvelenato di Tangentopoli, in una sarabanda giustizialista e manettara utile alla sopravvivenza del moribondo MSI e alla nascita di Alleanza Nazionale. Un’altra storia.
In questa ricerca la vicenda di Sigonella divenne paradigmatica della distanza che intercorreva tra la real politik internazionale — le dure “repliche della Storia” di hegeliana memoria — e la piccola polemica nostrana. E di conseguenza evidenziò il profondo iato tra la Destra parlamentare e il movimentismo missino e i suoi referenti intellettuali (Accame, Tarchi, Veneziani).
Risultato? Un corto circuito ricostruito dallo proprio stesso Craxi nel suo postumo libro “La notte di Sigonella”. Dietro il dirottamento della nave “Achille Lauro” molte altre (e ben più pesanti cose) si muovevano e si agitavano. Per l’allora inquilino di Palazzo Chigi si trattava di risolvere un intricatissimo rebus geopolitico in cui per la prima (e ultima?) volta l’Italia e l’Europa — escludendo l’arbitraggio degli americani ma con l’aiuto dell’Egitto di Mubararak, l’intermittente fiducia di Arafat e degli israeliani—diventava protagonista di un processo politico teso a costruire una vera pace nel Levante.
Una pace basata sul diritto e non sulla forza impostato sulla formula “due popoli, due Stati”. Un ambizioso ma possibile piano di mediazione e pacificazione in un quadro — l’antico Mare Nostrum —per noi vitale. Gli orrori di Gaza confermano, una volta di più la lungimiranza del “Cinghialone” meneghino.
Su queste coordinate, ben ricostruite nel suo libro da de Brabant, Sigonella (e dopo Sigonella) Craxi difese non solo la sovranità nazionale ma, soprattutto, il concetto di un’Italia autonoma e protagonista nel Mediterraneo, nel Levante, in Africa. Ottusamente i deputati missini attaccarono frontalmente il premier, mentre i segmenti più dinamici, con Beppe Niccolai, apprezzarono apertamente — con generosità, entusiasmo ma scarso approfondimento… — lo “scatto d’orgoglio” dimostrato in quell’occasione dal presidente del Consiglio.
Al tempo stesso l’attivismo craxiano diede linfa ed energia anche alla pattuglia di “modernizzatori” destrosi che faceva capo ai deputati Domenico Mennitti, direttore del bimestrale “Proposta”, e Tommaso Staiti. Sulle pagine della rivista il coordinatore Gennaro Malgieri affrontò ripetutamente, aprendo un confronto a più voci, il tema della “Grande Riforma” annunciata dal segretario Socialista, legandola al presidenzialismo in una sorta di “trasversalità” di un possibile progetto riformista. Una visione pragmatica e innovativa purtroppo mal o poco recepita da un partito ripiegato su posizioni passatiste. Come sopra accennato, ogni possibilità di convergenze si esaurì, nonostante gli sforzi dei “modernizzatori”, durante la breve segreteria Rauti.
Poco dopo, come scriveva Ugo Intini, Washington presentò a Craxi: «il conto di Sigonella (e ciò che ne seguì). E per questo forse pagò un prezzo, anche durante Tangentopoli, ancora da conoscere». Dubbi che non sfiorarono il partito della Fiamma e tanto meno interessano oggi i suoi attuali eredi che continuano a ignorare — con la significativa eccezione del presidente del Senato Ignazio La Russa che a gennaio 2024 ha voluto ricordare «uno statista che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’Italia repubblicana» — la lezione politica e umana di un grande ma sfortunato patriota. Bettino Craxi, morto il 19 gennaio 2000 in terra d’Africa. In esilio.
Scritto da Tommaso de Brabant
Quelle espresse in questo articolo sono le opinioni dell’autore, che non corrispondono necessariamente a quelle de "Lo Schiaffo 321". Immagini tratte dalla rete. Fonte: Il garofano e la fiamma. L’incontro mancato tra Craxi e la destra italiana” , Oaks editrice, Milano 2024
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