Ogni tanto il passato torna a farci visita e ci riporta indietro, sui suoi passi. Oggi è attesa la sentenza su Gianfranco Fini e i suoi famigliari per la brutta vicenda della casa a Montecarlo. Non entro nel merito del processo e se devo esprimere un pensiero in forma di sentimento, mi auguro – nonostante tutto – che gli sia risparmiata la condanna al carcere. Fini ha già pagato le sue colpe sul piano politico ed umano, e col diffuso disprezzo della gente, a partire da chi lo aveva a lungo osannato. Resta la condanna politica, ideale e morale per aver tradito il suo popolo e svenduto la casa dei suoi ideali.
All’epoca, parlando a nome dei ragazzi militanti del suo movimento, lo accusai di essere stato “ladro di sogni” di quella comunità. Pensavo di non doverne più parlare, per carità di patria e perché in certi casi preferisco dimenticare, non serbare rancore.
Ma la sentenza annunciata ci riporta a quel tempo e solo per un momento ne ripercorro la strada, a partire da una convinzione espressa in quei giorni: il vero mandante che a buon diritto poteva accusare a Fini era un ragazzo di quindici anni che si iscrisse alla Giovane Italia alle soglie degli anni Settanta.
Quel ragazzo sognava un’Italia migliore, amava la tradizione quanto la ribellione, e si sedette dalla parte del torto, per gusto aspro di libertà e amor di patria, scontandone tutte le conseguenze. Portava in piazza la bandiera tricolore, si emozionava per storie antiche e comizi infiammati, e pensava che solo i maledetti potessero dire la verità.
Quel ragazzo insieme ad altri coetanei fondò una sezione e ogni mese facevano la colletta per pagare tredicimila lire di affitto, più le spese di luce, acqua e attività. Si tassavano dalla loro paghetta; ma era solo un acconto, erano disposti a dare la vita. Il ragazzo aveva vinto una borsa di studio di ben 150mila lire all’anno e decise di spenderla tutta per comprare alla sezione un torchio e così esercitare la sua passione politica e anche di stampa.
Passò giorni interi da militante, a scrivere, a stampare e diffondere volantini. E con lui i suoi inseparabili Camerati, Precco, Martimeo, il Canemorto, e altri. Scuola politica di pomeriggio, volantini di sera, manifesti di notte, rischi di botte e ogni tanto pellegrinaggi nelle piazze con Almirante, in cerca di purezza con tricolori e fazzoletti al collo. Erano migliaia i ragazzi come lui. Ce ne furono alcuni che persero la vita, una trentina e più, ma non vuol ricordare i loro nomi; lo infastidiva il loro richiamo nei comizi per strappare applausi e voti. Uno di quei ragazzi caduti poteva essere lui.
È lui, il ragazzo di quindici anni, il vero mandante e ispiratore delle accuse a Fini. Non rivuole indietro i soldi che spese per il torchio, per mantenere la sezione, per comprare la colla. Furono ben spesi, ne va fiero. Come ben spese furono quelle serate a rischio, quelle nottate avventurose. Non rivuole nemmeno gli anni perduti che nessuno del resto può restituirgli, le passioni bruciate di quel tempo. E nemmeno chiede che gli venga riconosciuto lo spreco di pensieri, energie, parole, opere e missioni che dedicò poi negli anni a quella «visione del mondo».
Le idee furono buttate al vento ma è giusto così; è al vento che le idee si devono donare. Quell’etichetta gli restò addosso per tutta la vita, e gli costò non poco, ma seppe anche costruirvi sopra qualcosa. No, non chiede indietro giorni, giornali, libri, occasioni, opportunità di vita e di carriera e tanto tanto altro ancora.
Però quel che non sopporta è pensare che qualcuno, dopo aver buttato a mare le sue idee e i loro testimoni, dopo aver gettato nel cesso quelle bandiere e quei sacrifici, dopo aver dimenticato facce, vite, morti, storie, culture e pensieri, possa aver usato quel che resta di un patrimonio di fede e passione per i comodi suoi e del suo clan famigliare. Capisce tutto, cambiare idee, adeguarsi al proprio tempo, abiurare, rinnegare, perfino tradire. Non giustifica, ma capisce; non rispetta, ma accetta.
È la politica, bellezza. Non poteva restare inchiodato alla fiamma su cui pure ha campato per tanto tempo. E non è stato né il primo né l’ultimo a rimangiarsi gli “ideali” che sbandierava.
Però quel che non gli va giù è vedere quelle paghette di ragazzi che alla politica dettero solo e non ebbero niente, quei soldi arrotolati di poveracci che li sottraevano alle loro famiglie e venivano a dirlo orgogliosi, quelle pietose collette tra gente umile e onesta, per tenere in vita sezioni, finire in quel modo. Gente che risparmiava sulla benzina della propria Seicento per dare due soldi al partito che col tempo finirono inghiottiti in una Ferrari. Gente che ha lasciato alla Buona Causa il suo appartamento. Gente che sperava di vedere un giorno trionfare l’Idea, come si diceva con fede grottesca e verace. E invece, Montecarlo, i Caraibi, Dubai, due, tre partiti sciolti nel nulla, gioventù dissolte nell’acido; abiure, rinnegamenti, fastidio per la comunità che pure lo aveva portato così in alto. È questo che il ragazzo non può perdonare.
Da Berlusconi il ragazzo non si aspettava nulla, e neanche da Bossi o da Casini. E nemmeno da Fini, tutto sommato. Capiva i tempi, i linguaggi e le esigenze mutate, le necessità della politica, il futuro… Poteva perfino trescare e finanziare la politica in modi obliqui; ma giocare sulla pelle dei poveri, dei vecchi “Camerati” e dei ragazzini che per abitare i loro sogni si erano tolti i due soldi che avevano, no, non è accettabile. Attingere o lasciar attingere da quel salvadanaio di emarginate speranze è stato vergognoso; come vergognoso fu poi abbandonare tanta gente fedele che aveva dato l’anima al suo partito.
Il vero ispiratore e mandante di quella denuncia è stato dunque quel ragazzo di quindici anni. Si chiama Marcello, ma potrebbe chiamarsi con altri mille nomi. Non gl’interessa ora la condanna penale (teme solo che un’assoluzione dia l’alibi alla Destra di Governo per riabilitare e reinserire Fini), ma vorrebbe solo che fosse resa giustizia a quel ragazzo, a quelle migliaia di ragazzi e di vecchi militanti. O che perlomeno fossero rese le scuse, semplici, banali, ma sentite scuse da chi rubò quel sogno e lo svendette al peggior offerente.
In sezione c’era un manifesto con la faccia ieratica del poeta, Ezra Pound, che diceva: “Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o non valgono niente le sue idee o non vale niente lui”. Adattando quel motto alla casa di Montecarlo, allora dicemmo: se un uomo è disposto a svendere la sua casa, o non vale niente la casa o non vale niente lui. E la casa valeva. Fini aveva sporcato quel motto eroico di Pound che era stato il blasone di una generazione, la sua, la nostra. Quella resta la sua colpa e la sua condanna; e la sentenza non potrà aggiungere né togliere nulla.
Scritto da Marcello Veneziani
Quelle espresse in questo articolo sono le opinioni dell’autore, che non corrispondono necessariamente a quelle de "Lo Schiaffo 321".
Immagini tratte dalla rete. Fonte: marcelloveneziani.com
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