La frase significa subire una grave umiliazione o una prova mortificante.
Il modo di dire risale all’antica Roma, e precisamente alla Seconda guerra Sannitica. Nel 321 a.C., osservando dalle loro fortezze gli spostamenti delle legioni romane, i Sanniti riuscirono a intrappolare ben ventimila soldati dentro alla gola di Caudio (tra le odierne province di Napoli, Benevento e Avellino). Con massi e alberi divelti chiusero gli unici due ingressi della vallata e sbarrarono ogni via di fuga ai nemici. Quando di notte i Romani si videro circondati dalle fiaccole Caudine, capirono che rimaneva loro solo la resa. A sorpresa, però, dopo essere passati, disarmati e forse nudi, sotto un giogo, le “forche”, i prigionieri umiliati furono rilasciati.
Secondo alcune fonti antiche ciò avvenne affinché la mortificazione lasciasse un segno nel loro animo, ma per gli storici moderni, liberando i prigionieri romani, i sanniti vollero evitare l’insurrezione delle altre genti latine di fronte a un massacro.
Lo storico Livio racconta: «E venne l’ora fatale dell’ignominia; (...) prima i consoli, quasi nudi, furono fatti passare sotto il giogo; poi gli altri in ordine e grado furono sottoposti alla stessa ignominia; infine ad una ad una tutte le legioni».
Nel patrimonio librario della Biblioteca Storica è conservata la seconda edizione (1811) del volume Le Forche Caudine illustrate con due appendici sul celebre episodio storico del 321 a.C. L’opera è dedicata a Gioacchino Napoleone (Murat), re di Napoli. Ne è autore il letterato Francesco Daniele che sostituì Vico nell'incarico di storiografo di corte e che qui ricostruisce dettagliatamente l'ubicazione della battaglia. Nelle immagini vedute della Valle Caudina incise da Vincenzo Aloja su disegni di Alessandro D'Anna e una grande carta di Luigi Aloja con la "Pianta delle Forche Caudine".
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