In fondo ad ogni disagio psichico, si sa, c’è una tappa del nostro sviluppo evolutivo che non siamo riusciti a superare efficacemente. C’è sempre un evento scatenante, un trauma, spesso inconscio, non elaborato. Il tempo, e magari l’aiuto di uno specialista, ci aiutano a venirne fuori.
Ci sono traumi, però, che talvolta diventano invalicabili.
Lo smottamento emotivo è troppo forte, tocca corde troppo profonde, e dunque il meccanismo finisce per incepparsi in modo più o meno permanente. A volte ci sembra che il peggio sia passato e che la possibilità di riprendere il controllo di noi stessi sia lì, a portata di mano. Ma è solo un fuoco di paglia. E basta un nonnulla a ricacciarci nel baratro, scaraventandoci ancora più a fondo di prima.
L’aspetto tragicomico di questo maledetto meccanismo è che le origini di tutti i nostri problemi – l’evento traumatico scatenante cui abbiamo accennato – sono spesso chiare praticamente a tutti, tranne a colui che le ha vissute in prima persona, subendone poi tutte le conseguenze che abbiamo illustrato. Al contrario, costui, mette in moto il classico meccanismo di rimozione, negandone l’esistenza agli altri, ma soprattutto a se stesso.
Fin qui la teoria, che come sappiamo spesso finisce per perdersi nell’astrazione. Per questo ci vengono a supporto i cosiddetti “casi clinici” a dare concretezza alle tesi da manuale. Ebbene, in merito al disagio in questione, sorprendentemente paradigmatico è il caso del paziente Pd.
La parabola Dem (e frattaglie varie dell’universo post-veltroniano) è la dimostrazione plastica della validità di tutte le teorie cui abbiamo accennato e gli elementi che costituiscono la patogenesi del disturbo mentale del paziente – che in questo caso si manifesta con una crisi parossistica d’identità in forma ingravescente – ci sono veramente tutti.
Tanto per cominciare c’è il famoso evento traumatico scatenante che risale (come da manuale) al periodo dell’infanzia. Quando i futuri leader dell’attuale Sinistra italiana erano poco più che ragazzini. Parliamo del 1989. Tutto il mondo era davanti alla televisione ad assistere all’abbattimento del muro di Berlino che certificava l’implosione dell’utopia sovietica.
Il tramonto definitivo del mitico “Sol dell’avvenire”. Ebbene quelle picconate, che per tutti rappresentavano il trionfo della libertà, erano colpi letali nel subconscio dei compagni italici (e non solo) che fino al giorno prima andavano in giro con l’eskimo a cantare “bandiera rossa trionferà”, dietro gli striscioni di potere operaio.
La bandiera rossa invece, in quell’autunno dell’89, si ammainava per sempre e con lei tutta la narrazione operaista e proletaria. Da quel momento gli ex compagni hanno perduto la percezione del sé, allontanandosi istintivamente da tutto ciò che poteva rievocare quell’orrendo trauma. E qui entra in gioco il più classico dei meccanismi di rimozione che spiega il disprezzo per operai e proletari e il trasloco immediato nella Ztl, dove non c'è rischio di incontrarne uno nemmeno per sbaglio. E la vecchia bandiera rossa? Per carità, da sostituire immediatamente.
I Dem naturalmente ne ignorano le ragioni, ma quando se la ritrovano davanti si scatena il panico. Come nelle macchie di Rorschach, ci leggono lo smarrimento del sé. E allora scatta istintiva la sostituzione cromatica: hanno provato con l’arcobaleno Lgbtq+, con il verde dell’ambientalismo isterico dei “gretini” e persino con il giallo di Conte, ma niente: l’angoscia resta e, se possibile, aumenta ancora. Uno strazio vederli in queste condizioni. E pensare che alla Schlein, per riaccendere la speranza, basterebbe assoldare, al posto dell’armocromista, un bravo psichiatra. Ad occhio, risparmierebbe pure...
Scritto da di Alessio Di Mauro
Tratto da il "Candido", testata fondata nel 1945 da Giovannino Guareschi e rieditata nel 2014 dalla casa editrice Pagine di Roma, è un mensile di satira e di politica.
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