La Metafisica orientale*
René Guénon
Seconda Parte
Sfortunatamente c’è gente che ha la pretesa di «giudicare» quel che non conosce, e poiché costoro assegnano il nome di «metafisica» a una conoscenza puramente umana e razionale (il che per noi è soltanto scienza o filosofia), immaginano che la metafisica orientale non sia niente di più né d’altro se non questo, dal che traggono logicamente la conclusione che la metafisica non può portare a questi o a quegli altri risultati.
E tuttavia essa a simili risultati effettivamente conduce, ma proprio perché è cosa del tutto diversa da quel che presumono loro; tutto quel che essi prendono in considerazione non ha veramente nulla di metafisico dal momento che si tratta soltanto di una conoscenza d’ordine naturale, di un sapere profano ed esteriore; non è affatto di questo che noi intendiamo parlare. Vorremmo dunque intendere «metafisica» come un sinonimo di «soprannaturale»?
Accetteremmo molto volentieri un accostamento simile, giacché, finché non si oltrepassi la natura, ossia il mondo manifestato in tutta la sua estensione (e non il solo mondo sensibile che di esso è soltanto un elemento infinitesimale), si è ancora nell’ambito della fisica; quel che è metafisico è ‑ come già abbiamo detto ‑ quel che è al di là e al di sopra della natura, ed è perciò propriamente ciò che è «soprannaturale».
Ma qui si avanzerà indubbiamente un’obiezione: è quindi possibile andare in tal modo al di là della natura? Non esiteremo a rispondere in modo nettissimo: non solo ciò è possibile, ma ciò è. Questa non è però che un’affermazione, si dirà ancora; quali sono le prove che se ne possono dare?
È veramente strano che si chieda di provare la possibilità di una conoscenza invece di cercare di rendersene conto da se stessi facendo il lavoro necessario per acquisirla. Per chi possieda simile conoscenza, quale interesse e quale valore possono avere tutte queste discussioni? Il fatto di sostituire la conoscenza in sé e per sé con la «teoria della conoscenza» è forse la più bella ammissione di impotenza della filosofia moderna.
Del resto c’è in ogni certezza qualcosa di incomunicabile; nessuno può arrivare realmente a una qualsiasi conoscenza se non mediante uno sforzo strettamente personale, e tutto quel che un altro può fare è fornire l’occasione e indicare i mezzi per giungervi. È questa la ragione per cui sarebbe vano pretendere, in campo puramente intellettuale, di imporre una convinzione qualsivoglia; l’argomentazione migliore non potrebbe, a tal riguardo, sostituirsi alla conoscenza diretta ed effettiva.
Ora, la metafisica quale noi l’intendiamo può essere definita? No, perché definire significa sempre limitare, e ciò di cui è questione è, in sé, veramente e assolutamente illimitato e per questa ragione non può lasciarsi rinchiudere in nessuna formula o in nessun sistema. In certo qual modo la metafisica può essere caratterizzata, ad esempio dicendo che essa è la conoscenza dei principi universali; ma non si tratta allora di una vera e propria definizione, e del resto tale caratterizzazione può darne solo un’idea abbastanza vaga.
Vi aggiungeremo qualcosa se diciamo che l’ambito dei principi è molto più vasto di quanto non abbiano pensato certi Occidentali che hanno a ogni buon conto fatto della metafisica, ma in un modo parziale e incompleto. Così, quando Aristotele vedeva la metafisica come la conoscenza dell’essere in quanto essere, egli la faceva simile all’ontologia, assumeva, cioè, la parte per il tutto. Per la metafisica orientale l’essere puro non è né il primo né il più universale dei principi, poiché è già una determinazione; occorre perciò andare di là dall’essere e, anzi, è questo quel che più importa.
Questa è la ragione per cui, in ogni concezione veramente metafisica, occorre sempre tener presente il posto che ha l’inesprimibile; anzi, tutto quel che si può esprimere non è letteralmente nulla nei confronti di ciò che oltrepassa qualsiasi espressione, così come il finito, qualunque sia la sua grandezza, è nullo nei riguardi dell’Infinito. Molto più che esprimere si può suggerire, e di tal tipo è il ruolo che in questo campo adempiono le forme esteriori; tutte queste forme, si tratti di parole o si tratti di simboli di qualunque genere, costituiscono soltanto un supporto, un punto d’appoggio per elevarsi a possibilità di concezione che le sopravanzano senza paragone; torneremo più avanti sull’argomento.
Stiamo parlando di concezioni metafisiche non disponendo, per farci capire, di un termine diverso; ma non si creda, a causa di ciò, che si tratti di qualcosa di simile a quelle che sono le concezioni scientifiche o filosofiche; quello di cui si tratta non è di effettuare «astrazioni» di qualsivoglia genere, bensì di prender diretta conoscenza della verità com’essa è. La scienza è la conoscenza razionale, discorsiva, sempre indiretta, una conoscenza di riflesso; la metafisica è la conoscenza sovrarazionale, intuitiva e immediata.
Tale intuizione intellettuale pura, senza la quale non c’è vera metafisica, non deve però essere confusa con l’intuizione sensibile; l’una è di là dalla ragione, ma l’altra ne è al di qua; quest’ultima può soltanto abbracciare il mondo del cambiamento e del divenire, vale a dire la natura, o meglio un’infima parte della natura. Il campo dell’intuizione intellettuale, al contrario, è l’ambito dei principi eterni e immutabili, è il dominio metafisico.
L’intelletto trascendente, per afferrare direttamente i principi metafisici, dev’essere esso stesso di ordine universale; non è più una facoltà individuale, e considerarlo tale sarebbe contraddittorio, poiché non può rientrare nelle possibilità dell’individuo il superare i propri limiti, l’uscire dalle condizioni che lo definiscono in quanto individuo.
La ragione è una facoltà propriamente e specificamente umana; ma quel che è al di là della ragione è veramente «non-umano»; è questo che rende possibile la conoscenza metafisica, e quest’ultima ‑ occorre dirlo ancora una volta ‑ non è una conoscenza umana. In altri termini, non è in quanto uomo che l’uomo può giungere a essa; ma è in quanto quest’essere, che è umano in uno dei suoi stati, è nello stesso tempo qualcos’altro e qualcosa di più di un essere umano; ed è la presa di coscienza effettiva degli stati sovraindividuali che è l’oggetto reale della metafisica, o, ancor meglio, che è la conoscenza metafisica vera e propria.
Arriviamo perciò qui a uno dei punti più essenziali, ed è necessario insistervi: se l’individuo fosse un essere completo, se costituisse un sistema chiuso al modo della monade di Leibniz, la conoscenza metafisica non sarebbe possibile; irrimediabilmente rinchiuso in se stesso, un tale essere non avrebbe alcun mezzo per conoscere ciò che non è contenuto nell’ordine di esistenza al quale esso appartiene.
Sennonché le cose non stanno così: l’individuo in realtà non rappresenta se non una manifestazione transitoria e contingente dell’essere vero; esso non è che uno stato particolare fra una moltitudine indefinita di altri stati dello stesso essere; e tale essere è, in sé, assolutamente indipendente da tutte le sue manifestazioni, allo stesso modo in cui, per servirsi di un paragone che a ogni momento ritorna nei testi indù, il sole è assolutamente indipendente dalle immagini molteplici nelle quali si riflette.
È questa la distinzione fondamentale tra il «Sé» e l’«io», tra la personalità e l’individualità; e come le immagini sono ricollegate dai raggi luminosi alla fonte solare senza la quale non avrebbero nessuna esistenza e nessuna realtà, così l’individualità, si tratti del resto dell’individualità umana o di qualsiasi altro stato analogo di manifestazione, è ricollegata alla personalità, nel centro principiale dell’essere, mediante quell’intelletto trascendente del quale abbiamo appena parlato.
Non è possibile, entro i limiti di questa esposizione, sviluppare in modo più completo queste considerazioni, né dare un’idea più precisa della teoria degli stati molteplici dell’essere; ma io credo tuttavia di averne detto abbastanza da farne per lo meno presentire l’importanza capitale in ogni dottrina veramente metafisica.
Ho detto teoria, ma non è solo di teoria che si tratta, e questo è un altro punto che richiede una spiegazione. La conoscenza teorica, la quale ancora non è se non indiretta e in qualche modo simbolica, è soltanto una preparazione ‑ però indispensabile ‑ della vera conoscenza. Essa è del resto la sola che sia in certo qual modo comunicabile e, ancora, essa non lo è completamente; è questa la ragione per la quale qualsiasi esposizione non è se non un mezzo per accostare la conoscenza, e tale conoscenza, che inizialmente è soltanto virtuale, deve in seguito essere realizzata effettivamente.
Troviamo qui un’altra delle differenze che ci sono con quella metafisica parziale a cui abbiamo accennato in precedenza, quella di Aristotele ad esempio, già teoricamente incompleta in quanto si limita all’essere, e nella quale, inoltre, la teoria sembra di fatto venir presentata come sufficiente a se stessa, invece di essere concepita espressamente in vista di una realizzazione corrispondente, com’essa è sempre in tutte le dottrine orientali.
E tuttavia, anche in questa metafisica imperfetta, saremmo tentati di dire in questa semi-metafisica, si incontrano talvolta affermazioni che, se fossero state capite bene, avrebbero dovuto portare a conseguenze ben diverse: non dice infatti Aristotele ‑ chiaramente ‑ che un essere è tutto quel che conosce?
Tale affermazione di un’identificazione attraverso la conoscenza è il principio stesso della realizzazione metafisica; sennonché, qui tale principio rimane isolato, ha il solo valore di una dichiarazione meramente teorica, da esso non si trae nessuna conclusione, e sembra che, dopo averlo posto, non ci si pensi neanche più; come si spiega che lo stesso Aristotele, e i suoi continuatori, non abbiano percepito meglio tutto ciò che era in esso implicato?
Vero è che la stessa cosa accade in molti altri casi, e che essi sembrano dimenticare talvolta cose tanto essenziali quali la distinzione tra l’intelletto puro e la ragione, dopo averle tuttavia formulate non meno esplicitamente; si tratta di strane lacune.
Forse che bisogna vedere in esse l’effetto di certe limitazioni che sarebbero connaturate allo spirito occidentale, fatte salve eccezioni più o meno rare, ma sempre possibili? Ciò può essere vero in una certa misura, tuttavia non bisogna credere che l’intellettualità occidentale sia stata, in generale, così ristrettamente limitata, un tempo, quanto essa lo è nell’epoca moderna. Soltanto che, dottrine come quelle di cui abbiamo appena parlato, dopo tutto non sono se non dottrine esteriori, ben superiori a molte altre, dal momento che contengono nonostante tutto una parte di metafisica vera, ma sempre commista a considerazioni di un altro ordine, le quali non hanno ‑ esse ‑ nulla di metafisico...
Per quanto ci riguarda, noi abbiamo la certezza che in Occidente ci furono altre cose, oltre a quelle, nell’antichità e nel medioevo; che ci furono, a uso di un’élite, dottrine puramente metafisiche e che possiamo dire complete, compresa quella realizzazione che, per la maggior parte dei moderni, è senza dubbio cosa appena concepibile; se l’Occidente ne ha così totalmente perduto il ricordo, è a causa del fatto che esso ha rotto con le proprie tradizioni, ed è questa la ragione per cui la civiltà moderna è una civiltà anormale e deviata.
Scritto da René Guénon
* Conferenza tenuta il 17 dicembre 1925 a La Sorbonne di Parigi tratto da Scienza Sacra.
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