Le Rivolte di Montemiletto, Torre Le Nocelle, Bonito, Santa Paolina e Cervinara nel 1860
Il movimento di riscossa, iniziato ad Ariano si era esteso in tutto il Principato Ultra: il 5 e il 6 settembre a Montemiletto, il 7 a Torre Le Nocelle, Bonito, Santa Paolina, Cervinara, nel Molise e in terra di lavoro.
Francesco II in Irpinia poteva contare su alcuni fidati agenti, tra i quali: l'ex intendente Pasquale Mirabelli Centurione, Carmine Ardolino, ex agente della Polizia Borbonica e Pirro Penna che manteneva contatti con l'abate di Montevergine De Cesare, con il principe Luigi, (Conte d'Aquila, fratello di Ferdinando II), con il Clero, la Guardia Nazionale e gli amministratori. Gli agenti Borbonici sobillavano la popolazione contro i Liberali e i proprietari terrieri, promettendo terre e soldi, beni e privilegi per tutti.
Il rancore dei contadini e dei senza terra, nei confronti dei signorotti e liberali era giunto all'esasperazione perché i terreni dei vecchi feudatari erano passati lentamente nelle mani dei possidenti, i galantuomini, mentre, i contadini erano diventati ancora più i poveri. Gli agenti dei Borbone promettevano nuove terre per i contadini. (1)
A capo del comune di Montemiletto, con l'incarico di Sindaco è nominato l'arciprete Domenico Leone. Nella notte del 4 settembre una colonna di Camicie rosse, al comando del capitano Carmine Tarantino, giunse nella cittadina con l'ordine di abbattere il telegrafo e instaurarvi il Governo provvisorio. Il telegrafo fuori uso fu ritenuto dagli abitanti una grave offesa, per loro significava la fine del Governo Borbonico.
Nel frattempo, nelle campagne e nei paesi vicini, la popolazione incominciava ad organizzarsi. L'agente Borbonico Ardoino si era messo in azione chiamando a raccolta gli uomini di Gaetano Baldassarre della vicina Montefalcione mentre l'ex sergente del disciolto esercito, Matteo Lanzilli, coordinava la reazione. Per le campagne correva voce che i volontari stranieri avrebbero violentato le donne e saccheggiato le case: era giunto per loro, poveri contadini, il momento di vendicarsi di tutti i galantuomini e di tutti i proprietari in nome del Re.
All'alba del 6 settembre nelle campagne di Montemiletto, il suono della tofa chiamava a raccolta i contadini e coloro che durante le notte erano accorsi dai paesi vicini. Il sindaco del paese, il liberale arciprete Domenico Leone, nel frattempo, prevedendo il pericolo di una rivolta, aveva cercato di rinforzare le schiere volontarie del paese reclutando una ventina di armati provenienti da Montaperto. In paese, visto il pericolo, molti volontari si allontanarono, compresa la maggior parte della Guardia Nazionale. I pochi volontari, per difendersi, si barricarono nel castello. Verso mezzogiorno una moltitudine di gente armata proveniente dalla campagna, con le bandiere bianche, simbolo dei Borbone, aveva circondato il paese.
Erano dalle trecento alle cinquecento persone armate di pali, zappe, scuri, schioppi, baionette e forconi. All'improvviso si udì uno sparo e si diede l'assalto al palazzo del capitano Giuseppe Fierimonte. Questi aveva cercato di parlamentare per evitare di spargere sangue, ma la folla inferocita lo colpì e fece scempio del suo corpo. Da quel momento si scatenarono un po' tutti e, al nome di “viva il Re”, le uccisioni e le vendette non si contarono più. Furono incendiate e saccheggiate le case dei notabili. Scrive Arturo Bascetta:
“Quelle mani rozze, segnate dai solchi della terra, mostravano tutta la ferocia di secoli di sottomissione al potere. Era la ribellione degli uomini della terra verso i signori. La rabbia che si leggeva sui volti crucciati e anneriti dal sole aveva preso d'improvviso il sopravvento e quella pelle, seppure doveva restare scura, divenne d'improvviso scudo, e arma, e pretesto per non dire mai più signorsì a nessuno e, mai più, regalare salamelecchi contro natura. I nobili cuori degli uomini semplici erano diventati duri come le pietre. Perfino le loro donne, tirandosi su i capelli e sciupando di proposito una femminilità mai avuta, s'erano armate; e sembravano uomini, e donne, e poi solo uomini: era l'esercito dei reazionari che non volevano più chiedere” (2).
Nonostante i vari assalti, il castello resisteva. I militi asserragliati si difendevano bene, ai rivoltosi non restava che rassegnarsi o trovare qualche stratagemma per impadronirsene. Matteo Lanzilli, l'animatore della rivolta, chiamò un prete e lo convinse a portarsi sotto le mura del maniero per chiedere la pace senza spargere più sangue fraterno.
Dopo due tentativi, il sacerdote con il Cristo fra le mani riuscì a far cessare il fuoco. All'invito di una delegazione d'amministratori e religiosi e al richiamo di voci amiche, gli assediati uscirono dal castello e deposero le armi, fiduciosi della lealtà degli avversari. Appena disarmato il Lanzilli impugnò la baionetta e ferì un milite, era il segnale: incominciò di nuovo la carneficina.
Il tramonto del sole portò la calma.
Furono saccheggiate le case dei signori: Pesa, Colletti, Leone e Fierimonte; si contarono alla fine ventitré morti e un ferito. Il sindaco, arciprete don Domenico Leone, si salvò perché il giorno 7 si trovava ad Avellino insieme al parroco don Donato Colletti. Don Domenico non avrà la stessa fortuna nella reazione dell'anno dopo, perché sarà ucciso dai rivoltosi. (3)
Note
Fonte: Alle radici del brigantaggio di Pietro Zerella Parte XV
1 - Arturo Bascetta, L'Esercito di Franceschiello, o.c.
2 - Arch. di Stato Napoli, fasc. 1074.
3 - Samnium a. XXXIV gennaio-giugno, 1961, n.1-2, p.127 Varietà e Postille.
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