domenica 2 aprile 2023

ODIO NEOPARTIGIANO A SINISTRA, FASCIOFOBIA INCAPACITANTE A DESTRA | politica

ODIO NEOPARTIGIANO A SINISTRA,

FASCIOFOBIA INCAPACITANTE A DESTRA

La recente ripubblicazione da parte de "Il Giornale" di tre romanzi storici, scritti da coloro "che scelsero di stare dall'altra parte", ci permette di tornare a parlare di come la nostra memoria sia stata tramandata nel corso dei decenni e di come, in specie in questi ultimi anni, sia totalmente stata manipolata ad uso e consumo di una certa destra che, condannando quel passato, tenta in tutti i modi di farsi accettare dal sistema ciellenista, "per completarlo a destra", citando un certo Tatarella. Un sistema che, nonostante siano passati 76 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, continua imperterrito il suo "dominio", politico e morale, nonostante i cambi di etichette e di colori. 

I tre romanzi ripubblicati da "Il Giornale" sono quello di Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte; di Giose Rimanelli, Tiro al piccione e di Enrico de Boccard, Donne e mitra. Se tutti conoscono - o almeno dovrebbero conoscere - il libro di Mazzantini, pubblicato dalla Mondadori nel 1986 e che ha avuto un discreto successo negli anni '90 per i tipi della Marsilio, degli ultimi due si è persa memoria storica. Tiro al piccione, pubblicato dalla Mondadori nel 1953, è famoso soprattutto perché ha ispirato l'omonimo film di Giuliano Montaldo del 1961, cosa che valse all'incauto regista esordiente un "fermo" di tre anni… Ripubblicato "stancamente" nel corso degli anni, l'ultima di particolare importanza fu quella dell'Einaudi nel 1991.

Donne e mitra, invece, fu pubblicato da una piccola casa editrice di Roma - L'Arnia - nel 1950 e mai più ristampato, salvo una ripubblicazione nel 1995, con diverso titolo, presso una piccola casa editrice di Andria (Le donne non ci vogliono più bene, Sveva). Ed è davvero un "reperto archeologico" che ritorna alla luce dopo 71 anni.

La loro ripubblicazione mi ha permesso di affrontare per la prima volta questi due testi - Tiro al piccione e Donne e mitra - di cui avevo sentito parlare, ma mai avevo avuto l'occasione di leggere. Solo di Tiro al piccione mi ricordavo alcune immagini del film, quelle finali, in cui il Comandante tragicamente periva, il tutto in una cornice da crepuscolo degli dei, che fa molto RSI, ma che - non avendo visto tutta la pellicola - rimaneva nella mia mente come un quadro solitario senza colori affisso su una grande parete bianca.

La lettura del romanzo di Rimanelli, diciamolo subito, è stata deludente nel complesso. E si comprende perché da questo testo è stato tratto un film, mentre Donne e mitra - per citare l'altra ripubblicazione de "Il Giornale"  è scomparso negli abissi delle biblioteche.

Infatti, sebbene scritto da uno "che scelse di stare dall'altra parte", Tiro al piccione è - nel suo pur brillante realismo - tutta una di quella scelta che è - e rimane - condannabile, in quanto per l'autore non fu una scelta volontaria, ma solo il frutto di un concatenarsi di eventi sfortunati che lo condussero a vestire la divisa dapprima germanica e successivamente repubblicana. 

Per Rimanelli quella della RSI non fu quindi una scelta, ma un dramma accidentale. Se avesse potuto - come fece e cercò di fare altre volte - avrebbe disertato allegramente. Insomma, il testo si inquadra perfettamente nella lettura che fecero alcuni settori comunisti dell'esperienza della RSI: 

quei giovani andavano "recuperati" al verbo marxista; la loro scelta era stata, in realtà, una non-scelta, obbligati a servire uno Stato in cui non credevano, oppure traviati dall'educazione di un nefasto regime. Ecco, Tiro al piccione fa parte di questa operazione di "recupero" - al PCI! - tentata da alcuni comunisti "illuminati", in cui cadde - e vogliamo credere che sia stata una "caduta" non ragionata - gente del calibro di Stanis Ruinas con il suo "Pensiero Nazionale" in quei lontani primi anni del dopoguerra.

Del resto, Rimanelli, nel tentare di piazzare il suo scritto presso l'Einaudi - all'epoca gestita da un "collettivo comunista militante", tra cui censurava abilmente Italo Calvino -, allegò al testo anche una prefazione che era addirittura tutto un atto di fede antifascista. Cosa che, comunque, non gli valse la benevolenza dei censori che lo spedirono presso la Mondadori, casa editrice che, alla fine, pubblicò il romanzo, senza - per fortuna - l'atto di pentimento e di condanna proposto all'Einaudi. Forse per l'autore era davvero troppo e in un sussulto di dignità preferì cancellarlo.

Inquadrata così l'opera, si capisce perché si sia tentata una sua versione cinematografica nel 1961 che, seppur ben ancorata su solide fondamenta antifasciste, valse al povero regista esordiente Giuliano Montaldo una reprimenda severa che lo fermò per tre anni…

Eppure, ancor oggi, quando si sente parlare di Tiro al piccione più di qualcuno - che ovviamente mai ha letto il romanzo e tantomeno visto il film - considera l'opera degna di interesse. Interesse letterario o cinematografico sicuramente, ma dal punto di vista storico - e se vogliamo, anche politico - si tratta di un'opera criticabile. Un atto compiuto all'interno della cultura antifascista militante, che ebbe scarsissimo successo. Perché all'epoca - ma anche oggi del resto - parlare di quel passato - recente o remoto che sia - era - ed è - un tabù invalicabile. Parlarne male, ma senza odio, diventava scomodo. E le opere di Rimanelli, Mondolfo - e Ruinas - ne sono esempi lampanti.

Del resto, davvero pochi fascisti, checché se ne dica, furono disposti a scendere a compromessi con i comunisti e salire sul loro carro. Scelta - si ricordi sempre - che presupponeva la condanna del fascismo e della RSI e l'accettazione delle "ragioni storiche" del PCI. 

Insomma, bisognava non solo ammettere di aver sbagliato, ma anche ammettere che i partigiani avevano ragione. Allora si poteva essere perdonati e magari si poteva aspirare alla carica di Segretario di Sezione del PCI a Trepponti sull'Adda o, più semplicemente, in un posto di lavoro in una cooperativa rossa. Di diverso respiro è invece il romanzo di Enrico de Boccard, Donne e mitra. De Boccard, classe 1921, faceva parte di quella schiera di uomini che non avevano intenzione di rinnegare o giustificare un bel nulla, sebbene ancora fischiassero le pallottole dei sicari comunisti, le inchieste giudiziarie sui "crimini di guerra", la repressione antifascista. Non aveva bisogno di "mostrarsi presentabile" e si era messo di traverso a un sistema che non era il suo. 

Nel 1948, dalle colonne del battagliero periodico "Architrave" diretto da Guido Scotto, fu animatore di una stagione straordinaria di rivendicazione di un ideale, di fedeltà ad un ideale. Non a caso ebbe aspri scontri con Stanis Ruinas, definito "bagherozzo", considerando "Il Pensiero Nazionale" un "libello scandalistico" al soldo del PCI (che, infatti, finanziava il giornale). De Boccard non era certo un estremista, né un visionario apolitico, ma cercò sempre di stemperare gli animi, di guardare il nemico con gli occhi di un Italiano libero dai pregiudizi. 

E certamente non era neanche un "timido", quelli che piacciono tanto alla destra, ricordato - tra l'altro - per essere stato processato nel 1955 per aver trafugato la "Pietra della pace", un cippo fatto realizzare dagli Stati Uniti per commemorare la resa incondizionata e il passaggio al nemico del Regno d'Italia. De Boccard rivendicò il gesto affermando: 

"Fui indotto ad asportare il cippo per motivi patriottici. Tale cippo infatti fu eretto dagli Americani per eternare la loro impresa nel luogo in cui essi imposer all'Italia l'armistizio-capitolazione. Tale lapide pertanto, a mio parere, rappresentava una offesa all'onore nazionale".

Donne e mitra è certamente un romanzo straordinario, forse tra i più belli che ci raccontano la Repubblica Sociale Italiana. In quanto frutto non di una rielaborazione ideologica tipica di chi quella stagione aveva rinnegato o cominciava a guardarla con disincanto, ma di chi quella scelta aveva fatto una bandiera per la vita di cui andare orgoglioso. E questa sincerità, questa fedeltà, questa visione del mondo, la si ritrova nel romanzo. Per questo non poteva essere funzionale al sistema per cui - anticipando le conclusioni di un certo Fini di un sessantennio dopo - il fascismo era il "male assoluto".

Non anticiperemo nulla, augurandoci che i nostri lettori si sentano in dovere di acquistare il volume e cimentarsi in una piacevole lettura che sa di storia, d'amore, di realtà. Ma alcuni brani dell'appendice tratti da "Architrave" ci sembrano di una straordinaria, quanto desolante, attualità, nonostante siano passati 73 anni!

Scriveva nell'Estate 1948, Enrico de Boccard: "Il guaio è che per il Sig. Pierantoni [Presidente dell'Associazione Nazionale tra le Famiglie Italiane dei Martiri trucidati dai "nazi-fascisti"], e purtroppo per molte altre persone, certi argomenti sono tabù, qualora non siano trattati in modo conforme agli intendimenti di coloro (come il predetto apolitico Presidente) che, essendosi trovati per forza di avvenimenti storici, dalla parte di quelli che hanno vinto, hanno autoproclamato (in modo assai contrastante con quella democratica libertà che è loro sì cara e di cui in realtà ignorano perfino come è fatta) che chi non la pensa come loro deve essere perseguito a norma di codice. 

Essi hanno creato dei miti, dei tabù in nome dei quali tutto è ammesso, dalla denuncia al delitto di folla". E ancora: "Nessuna persona potrà negare che non 'proditori' erano i partigiani, ma proditoria la forma di lotta armata che le circostanze avevano loro imposto di adoperare, magari anche contro la predilezione del loro animo, per leali forme di lotta in campo aperto. Né mi vorrà contestare, ad esempio, l'apolitico Presidente dell'ANFIM, che il lanciare contro una colonna di soldati nemici in divisa un carretto di tritolo non costituisca un tipico esempio di attacco proditorio, specialmente se si tiene conto che l'attentatore era travestito da spazzino. Né vorrà del pari negare che la famosa 'bicicletta dei GAP' sia un modo leale di combattere in campo aperto, contemplato non dico nel Manuale Cavalleresco del Gelli, ma neppure dalle leggi internazionali di guerra. 

Era utile ai partigiani di adoperare quel metodo? Padronissimi di farlo, ma non era né è proprio, allora, il caso di scandalizzarsi allorché l'avversario, in seguito al ripetersi di tali atti, adopera anche lui mezzi adeguati di difesa e di ritorsione. Ma questo l'apolitico Presidente e tutti gli altri che gli tengono bordone non lo vorranno mai ammettere, giacché secondo loro fascisti repubblicani e Tedeschi avevano il sacrosanto obbligo di farsi sparare addosso senza reagire. Reagendo, infatti, secondo i vari Pierantoni, essi diventavano immediatamente degli 'assassini'". 

Concludendo: "Ed a proposito di madri, ha mai pensato, egregio Sig. Pierantoni, Presidente ed apolitico, alle 32 madri tedesche, i cui figli caddero in seguito all''azione' di Via Rasella? Madri il cui dolore, secondo lei, vale di meno o addirittura non vale niente, perché esse appartengono ad un Paese che ha perso la guerra ed i loro figli, secondo la farisaica morale anglosassone in combutta con l'amoralità sovietica, sono stati per definizione dichiarati 'criminali di guerra' o belve nazifasciste? Ha mai pensato a tutte quelle madri i cui figli giacciono nelle foibe della Venezia Giulia, o nei campi della Bassa Emiliana o nelle montagne del Parmense, del Reggiano, della Liguria e del Piemonte? E di quelle che hanno i figli sepolti nel famoso Campo 10 di Musocco, sulle cui tombe è vietato, è tabù deporre un fiore e su cui dei mascalzoni che disonorano le file da cui provengono si divertivano a depositare i loro escrementi? Ha mai pensato Lei, Presidente apolitico, alla moglie stessa di Mussolini, cui un Governo che si dice cristiano rifiuta perfino di comunicare dove è sepolto il cadavere del marito? 

Ci pensi, Sig. Pierantoni, ci pensi e forse si convincerà allora che i Morti, tutti i Morti sono uguali e devono essere ugualmente onorati, siano essi gli Italiani fucilati alle Fosse Ardeatine dai Tedeschi, oppure i Tedeschi impiccati a Norimberga dagli Alleati. Io ho la coscienza, egregio Presidente dell'ANFIM, di non averli mai offesi, questi Morti". Parole che dopo 73 anni sono di una terribile e triste realtà. 

Ecco, allora, nelle polemiche che i neopartigiani sollevano quotidianamente contro la nostra storia e i nostri caduti; nell'odio antifascista rinfocolato dai partiti della sinistra; nella fasciofobia che attanaglia la destra di Governo, democratica e liberale; riscopriamo le parole di Enrico de Boccard.

Utilizziamole nel dibattito, nello scontro, a testa alta, con l'orgoglio di non aver mai rinnegato un bel nulla, con il dovere di continuare su questa strada. Ben pochi avranno il coraggio di rispondere.

Scritto da Pietro Cappellari

Quelle espresse in questo articolo sono le opinioni dell’autore, che non corrispondono necessariamente a quelle de "Lo Schiaffo 321". Immagini tratte dalla rete. Fonte: ultimacrociata.it

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