IRPINIA/UNA TRAGEDIA ANNUNCIATA.
FANGO, LACRIME E COLPEVOLI SILENZI.
"Viaggio nel paese dell'alluvione, feudo dei vecchi dc dove i canali sono cementificati e gli alvei tappati, le case si ergono a strapiombo sul baratro e i parchi giochi sono insulti al buonsenso. Dove la pioggia è sempre un diluvio che trascina giù dalla montagna melma e lavastoviglie, alberi e frigoriferi, lastroni di cemento e massi. E dove la morte arriva fra l'indifferenza dei potenti".
DA CERVINARA, MATTIAS MAINIERO
Questa è la storia di un paese ridicolo, emblema e avamposto di una nazione da incubo. Cervinara, quaranta chilometri a nord di Napoli, una manciata o poco più da Avellino. Qui Nicola Mancino, popolare, presidente del Senato, ha il suo feudo elettorale, antico, solido. Qui Alberta De Simone, deputata, diessina, raccoglie i suoi voti, che non sono pochi. Qui i Romani, secoli fa, abbassarono la schiena passando sotto l'umiliazione delle Forche Caudine.
Qui, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, la natura decise di dire basta. Basta all'ignoranza, all'incultura, al pressappochismo, alla faciloneria, alle dimenticanze. Basta a quelle Forche Caudine anni avevano che per anni funzionato al contrario, i Romani che scendevano con la schiena dritta a dispensar soldi ed elemosine, tutt'intorno i locali proni a stender la mano per raccogliere oboli e regali. C'è un monte sopra Cervinara. Sta lì, da sempre, alto e massiccio.
Quella notte borbottò, cominciò a perder pezzi. Sotto un diluvio che qui sembrò universale, a valle cominciò a scender di tutto: fango, alberi, radici, massi. Tutto quello che c'era sulla montagna. E tutto quello che gli uomini vi avevano messo sopra: carcasse d'auto e di lavastoviglie, vecchi frigoriferi, qualche lavatrice, immondizia, tubi di ferro, lastroni di cemento.
Pianti e risate
«Era da poco passata la mezzanotte», racconta Annamaria Zipete. E, incredibile a dirsi, nel suo sguardo non c'è terrore, non c'è rabbia. Fredda cronaca di una notte di tragedia che qui tutti si aspettavano. Scrutavano la montagna, calcolando i giorni che mancavano al tacito appuntamento con la morte. Indifferenti, insensibili, cocciutamente inattivi. E sorridevano pensando che le loro case stavano venendo su bene. Che la mansardina aveva preso forma, la verandina era stata costruita, il parco giochi era lì, la piazzetta, quel facsimile di piazzetta, era stata lastricata.
Beati erano, e anche un po' ebeti. Il signor Mario aveva fatto ridipingere la facciata della sua casa e s'era dimenticato che quella casa s'ergeva a strapiombo sul fiume e sul canale che avrebbero scatenato la tragedia. E Silvia e Giulia o Alessandra o Nunzia giravano su una giostra che in qualunque Paese civile avrebbero smontato il giorno dopo la costruzione. Parco giochi lo chiamavano. Uno sputo, uno scaracchio vomitato dal potente di turno su una lastra di cemento di pochi metri quadrati che faceva da copertura a un canalone intasato di erbe e immondizie. Neppure i sette nani avrebbero potuto giocarci senza offendersi. Neppure il maligno della favola di turno l'avrebbe potuta sistemare proprio lì, quasi a voler sfidare la natura. Vieni, siamo pronti a farci distruggere.
Ma questa è Cervinara, lacrime e risate, tragedia e commedia che si mescolano in un tutt'uno indefinibile. Cervinara, con i canali che raccolgono le acque che vengono giù dalla montagna e che sono ancora quelli dei Borboni, mentre l'uomo che è andato sulla Luna già medita di sbarcare su Marte. Cervinara, con le sue strade inverosimili, le sue case spuntate dappertutto. Eccola qui la tragedia del paese ridicolo, insulto alla logica, alla correttezza. Un insulto che fino a ieri sorrideva, e non si sa di cosa, per cosa. Non si sa dove ne trovasse il coraggio.
L'allarme inascoltato
Anni fa c'erano a Cervinara tredicimila abitanti. Oggi poco più di diecimila. Ma si è continuato a costruire mentre la gente andava via, perché il cemento significa potenza, perché dopo l'auto di grossa cilindrata non resta che affidarsi al mattone per tappare i buchi che i libri non hanno colmato.
Non c'è Internet da queste parti. Non ci sono locali per i giovani. Ci sono stati i soldi del dopoterremoto. Settantaquattro miliardi spesi in edilizia. Solo, unicamente in edilizia. Un nuovo Municipio sorto al posto di un seicentesco convento, una nuova orrenda chiesa che già cade a pezzi, una vecchia deliziosa chiesa non ancora ricostruita, un palazzetto dello sport costato miliardi e rimasto lì, vuoto falansterio, freddo monumento alla demagogia. Nessuna risistemazione del territorio, nessun riassetto urbanistico, nessuna concessione alla civiltà. Cemento e deserto ai piedi della montagna. E quella piazzetta con quel parco giochi da cartolina per subnormali.
La morte viene col fiume
«Qui a Cervinara», spiega Guido Simeone, ingegnere capo del Comune, «non c'è abusivismo. E non c'è stata neppure deforestazione. La tragedia, l'alluvione, i morti sono dovuti alla particolare natura della montagna che è venuta giù da sola».
E il guaio è che l'ingegner Simeone ha in buona parte ragione. Qui a Cervinara è quasi tutto legale. Anche lo scempio ha il timbro in regola. Di abusivo c'è la logica, il buonsenso, l'efficienza. Li ritrovi qui e là, a sprazzi, mal tollerati. Li ritrovi in un signore del Veneto, Antonio Seren, che da vent'anni vive in queste terre, che va per funghi e che al bar ti racconta: «Lo sapevamo tutti, prima o poi doveva accadere». Ma lui è del Veneto e parla un'altra lingua.
Li ritrovi in ValerioiCriscuoli, vent'anni, presidente di Azione Giovani "Sergio Ramelli", che dieci mesi prima della tragedia e dei morti ha allestito una mostra fotografica con i suoi amici denunciando la tragedia che ci sarebbe stata. E nessuno lo ha ascoltato. Ma Valerio è giovane ed è di destra, minoranza nella terra dei viceré prima democristiani e poi popolari, la terra dove anche la destra, quella adulta, ha scoperto l'odore del potere e delle poltrone, sedendosi e adeguandosi. Le sue foto erano là, appese al muro, formidabile j'accuse, disperato grido d'allarme e di dolore. Le hanno viste. Hanno visto quel paese allagato prima ancora che venisse l'alluvione. E non si sono mossi d'un millimetro, fino a quella notte fra il 15 e il 16 dicembre, quando si sono aperte le cataratte del cielo e degli occhi. Giù fango e lacrime, che non devono commuovere.
«Ho sentito la gente urlare», racconta Sandra, 17 anni, studentessa. «Ho visto un gran viavai. Ho sentito il rumore. Era il fiume».
Il fiume, lo chiamano. Non ha un nome, come in un racconto di Hemingway, figuriamoci un alveo che potesse chiamarsi alveo. L'acqua, il fango, il fogliame, i detriti, i sassi, il cemento, l'ira di Dio e l'immondizia degli uomini giù dalla montagna che l'Italia dei Mancino e dei De Mita, dei Mastella e dei De Simone, di Jervolino e Assunta e Giuseppe e vattelappesca, l'Italia del tirare a campare, tutti insieme, che chiudono un occhio e anche due, non ha mai risistemato. Metro dopo metro il fiume ha preso vigore e velocità. È arrivato alle prime case, dove c'erano quei canali che non erano più canali. Erano tappati, dalla terra, dalle erbacce, dall'incuria. Dall'inciviltà di chi pensava che vivere in paese significasse solo curare il proprio orticello e addobbare l'albero del suo Natale che per quest'oggi non c'è. Né per lui ne per gli altri.
Vite spezzate
«Alla prima curva», raccontano in Comune, «la melma è andata dritto». Ed è stato il finimondo. Case distrutte, vite spezzate, alberi divelti. E quel po' di fango che ha preso la via dei canali, che li ha intasati facendoli esplodere. Perché i canali, nel paese degli Attila eletti col voto popolare e degli assurdi mattoni col timbro in regola, non sono soltanto tappati. Sono anche coperti. Dal cemento, naturalmente. E sulla copertura c'era di tutto; a partire dal parco giochi. Sei i morti, due ancora dispersi. Ma potevano essere molti di più. Se i volontari alla fine non si fossero svegliati riscoprendosi cittadini e dando l'allarme. Se non fossero andati casa per casa a bussare e quasi obbligare lo sgombero. Se non avessero lottato per ore e ore contro il fiume.
Gli uomini e il fiume, scriverebbe Hemingway. Gli uomini e la montagna. E racconterebbe del marito di Annamaria Zipete che ha aperto la porta di casa e ha detto al maledetto serpente di melma di accomodarsi in salotto facendolo uscire per la porta del retro, lui e il figlio rintanati nel bagnetto, la moglie e l'altra figlia sul balcone ad attendere un elicottero che le portasse in salvo.
Ma non potrebbe, Hemingway, non potrebbe perché qui di eroico c'è ben poco, raccontare di don Antonio Raviele, parroco del paese, che ai funerali accusa i potenti, il parroco che è nipote del sindaco della ricostruzione e figlio di un altro uomo che ci ha rimesso la casa. E solo ora parla senza spiegare perché prima ha taciuto. Storie di paese, storie del Sud. E il parroco accusando i politici accusa senza saperlo anche se stesso e chi per anni è stato zitto, contraccambiando il proprio silenzio col piccolo permesso, col tacito accordo, il tirare a campare, il volemose bbene che qui si chiama quieto vivere e ha radici antiche.
Accusa il potere e i suoi mille tentacoli, potere che prima era democristiano e poi si è riciclato cambiando stemma, ma rimanendo democristiano. E accusa il consociativismo, sfociato in quell'ultima giunta dove sedeva anche l'opposizione d'una volta, dove ai Lavori pubblici c'era Alleanza Nazionale. E dove tutto è finito con un commissario straordinario e nulla è stato fatto.
Vecchia storia di un Sud che chiede aiuti e non sa aiutarsi da solo. Brutta storia di un Sud che nelle leggi e nelle pieghe delle leggi trova i soldi e la forza per costruirsi le legalissime e inutili e pretenziose mansardine e non per risistemare la montagna.
Un Sud che pretende, ma che non vede più in là della sua casa, del giardinetto, del privato. Ciò che è pubblico, qui a Cervinara e in Irpinia e in Campania e nello sconfinato deserto del Mezzogiorno, resta terra abbandonata. Non ci pensa Roma. E non ci pensano i locali. Nessuno fa. E nessuno s'arrabbia, se non dopo, ora, contando i morti, i dispersi, le case lesionate e quei cinquecento sfollati che pesano sulle coscienze di Roma e di Cervinara.
«Avevamo chiesto seicento milioni per la risistemazione di uno dei canali. E poi altri cinquecento per un altro canale ancora», racconta l'architetto Nicodemo De Vito, dell'ufficio tecnico comunale.
Volontari e ditte private
Quei soldi non sono mai arrivati. E la presa in giro d'una Regione che aveva promesso e non ha mantenuto la promessa, lo scaricabarile sulla pelle dei futuri alluvionati che sapevano che prima o poi sarebbero rimasti alluvionati, sono passati sotto silenzio. Allora. E ora peggio ancora.
Perché, racconta l'ingegnere capo scrutando progetti, mappe relazioni, «anche se quei canali fossero stati sistemati la tragedia sarebbe ugualmente scoppiata». Perché la colpa è della montagna e «l'unica cosa da fare è monitorare costantemente il monte. Monitoraggio strumentale e a vista». Monitorare la tragedia in arrivo, seguirla passo passo, vederla avvicinarsi per poter fuggire prima. Non prevenirla. Figuriamoci.
Siamo a Cervinara, che vive oggi la sua tragedia di paese ridicolo, avamposto di una nazione da operetta anche nel lutto. Siamo nel Sud d'Italia, terra di fatalismo, piagnistei, piccoli e grandi omertà. Terra di conquista che ha la vocazione d'essere conquistata e calpestata purché sia salvo il piccolo personalissimo tornaconto, che è la tomba del pubblico tornaconto.
Paese dove il fango viene ancora spalato da volontari e ditte private, dieci operai, tre automezzi di cui uno perde anche nafta. E 350 uomini della Protezione civile sotto la guida dell'ingegner Piero Moscardini, reduce dal Kosovo e dall'Abruzzo terremotato, eroe senza virgolette che combatte con la montagna e il freddo, le case pericolanti e il fango, che non si dà per vinto ma è circondato da un paese che si è sconfitto da solo.
Peggio dei Borboni
Adda passa' 'a nattata, diceva Eduardo. E 'a nuttata non passò. Non poteva passare. Perché a Cervinara e in tanta parte del Sud, a Quindici che sta proprio dall'altra parte della montagna di pastafrolla, a Sarno che dista solo pochi chilometri e che ancora piange, nei 330 comuni a rischio di frana del Mezzogiorno d'Italia, nei duemila chilometri quadrati di catastrofe in agguato, chilometri quadrati censiti, ufficiali, riflettori si accendono solo quando è l'ora del fango e delle lacrime. Cristo si fermò a Eboli. Lo Stato è arrivato ad Avellino o giù di lì.
A Cervinara e in tanti altri paesi simili ha messo radici la cultura del dopoterremoto, che non vuol dire riassetto idrogeologico. Non vuol dire costoni di montagne bonificati. Non vuol dire civiltà. Significa solo ed esclusivamente soldi pubblici per opere private e manufatti comunali sventolati come falli pompeiani, simboli di abbondanza, potenza. Fertilità. Che così intesa genera solo tragedie. Persino i Borboni seppero fare meglio scavando quei canali che ancora oggi sono gli unici canali esistenti in tante zone del Mezzogiorno e che ancora oggi drenano le acque che scendono giù dalle montagne. Fino a quando la montagna non s'arrabbia e ti scatena una catastrofe.
tratto da: Il Borghese, settimanale de "Il Principe, Destra di Popolo" (9.1.2000)
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