Il Brigantaggio è un fenomeno fin troppo complesso e articolato da poter essere inquadrato o liquidato sulle reti sociali digitali o nelle discussioni da bar. Solo lo studio e l'approfondimento, senza paraocchi, permette una crescita culturale reale e non falsata da qualsivoglia schieramento intellettuale o pseudo tale.
Alla luce di ciò, pubblichiamo per le lettrici ed i lettori de Lo Schiaffo 321 questo punto di vista che circola insistentemente sui gruppi "AntiBorbonici". Sarebbe interessante una risposta argomentata dei Borbonici 2.0 per analizzare un aspetto della nostra Terra dimenticato.
BRIGANTI? CRIMINALI COMUNI ED EFFERATI
È ampiamente noto e provato che la schiacciante maggioranza dei briganti e dei loro capi altro non erano che criminali comuni. Attivi nel Mezzogiorno da secoli e secoli e secoli, ininterrottamente ed in gran numero, le bande brigantesche devastarono le popolazioni quanto le carestie e le epidemie.
L’entità dei crimini compiuti ad opera di questi delinquenti rimane ad oggi ancora ignota nelle sue precise dimensioni quantitative. Giusto per dare un’idea delle sue possibili proporzioni si può ricordare la stima che uno studio del brigantaggio, Adolfo Perrone (“Il brigantaggio e l’Unità d’Italia” Milano-Varese 1963, p. 266) riporta di circa 5 o 6 mila civili assassinati dai briganti soltanto negli anni dopo l’Unità. Si tratta d’un totale che sostanzialmente equivale a quello proposto da Franco Molfese, senz’altro il massimo studioso del brigantaggio postunitario, per il totale di briganti abbattuti o giustiziati dall’esercito e dalla guardia nazionale nel corso della repressione del fenomeno dal 1861 al 1865. È superfluo precisare che mentre quelle dei briganti erano vittime innocenti, i briganti stessi erano armati dediti a delinquere.
La somma di civili assassinati suggerita dal Perrone, anche se fosse esatta, non terrebbe conto comunque dei ferimenti, dei rapimenti, delle violenze carnali, degli incendi e di tutti gli altri reati compiuti da questi criminali, per non parlare poi dei militari uccisi dai briganti stessi.
Quando si valutano queste cifre si ricordi che il brigantaggio fu massicciamente presente in tutto il Meridione quantomeno dal secolo XIV. Un esame esaustivo dei crimini perpetrati dai briganti richiederebbe un lavoro di molti anni compiuto da un’intera squadra di studiosi, poiché bisognerebbe esaminare una documentazione sterminata e per di più sparpagliata in una quantità d’archivi differenti e fonti d’altra natura ancora.
In attesa che un tale meritevole studio sia realizzato, è comunque agevole offrire una rapida sintesi dell’operato delinquenziale di singoli briganti o bande brigantesche, in modo da fornirne un campione ridotto, che, sebbene non possa sostituire un’analisi statistica approfondita, pure può avere carattere esemplificativo.
Il capobanda Michele Caruso, amico di Crocco, era uno psicopatico ed un sadico, che si divertiva ad uccidere uomini, donne ed animali per puro sadismo. era dedito ad uccisioni del tutto ingiustificate e compiute per puro gusto d’uccidere. Furono innumerevoli i suoi assassini perpetrati senza alcuna apparente motivazione, come colto da attacchi di follia omicida. Un esempio è il seguente:
“12 marzo 1863 Lungo la via che conduce a Montuoro fu incontrato dalla banda Caruso, Luigi Bianco di Ururi. Caruso, nel vederlo gli disse: Dove vai? e l'altro di rimando; Mi reco in campagna. È meglio che resti qui, caso contrario questo tempaccio ti apporterebbe danno alla salute, e, senza dir altro, lo rese cadavere con un colpo di pistola. Eppure nessun animale uccide pel gusto di uccidere, come faceva Michele Caruso.” [Abele De Blasio, "Il Brigante Michele Caruso Ricerche di Abele De Blasio", Stab. Tipografico, Napoli, 1910].
Un altro caso emblematico, fra i molti, delle sue azioni avvenne nell’ottobre del 1863, quando questo capobrigante si recò con la sua amante Filomena Ciccaglione (una donna che era stata da lui rapita dopo che il delinquente aveva assassinato il padre) nell’abitazione di un suo “compare” in Puglia.
Il “comparaggio” era all’epoca in Italia meridionale un legame molto forte e sentito. Il “compare” accolse amichevolmente Caruso, lo ospitò nella sua abitazione e gli offrì un pranzo. Terminato di mangiare, Michele Caruso, senza alcun motivo apparente, assassinò il “compare” e massacrò anche tutta la sua famiglia. Terminata la strage, il brigante fece letteralmente a pezzi il corpo del “compare” e lo buttò dentro ad una caldaia d’acqua bollente, così lessandolo. Durante il processo, questo Caruso, analfabeta, dichiarò ad uno dei giudici quale fosse la sua filosofia di vita:
“Ih! Signurì, se avesse saputo legge e scrive, avrìa distrutto il genere umano”.
Questa sua celebre affermazione, esaminata fra gli altri anche dall’importante storico del brigantaggio Franco Molfese come una delle espressioni più tipiche della mentalità brigantesca, s’intona perfettamente con le azioni da egli compiute, che apparivano ispirate sovente ad un puro e semplice gusto d’uccidere e distruggere per il diletto di farlo, su di uno sfondo d’odio per il mondo intero nella sua totalità.
Sin dall’infanzia Caruso si dedicata a torturare ed uccidere animali e proseguì in età adulta a fare lo stesso sia con esseri umani, sia con bestie. Questo brigante era inoltre preso da odio particolare per le donne incinte, che rapiva ed uccideva proprio perché gravide.
Uno dei principali capimassa sanfedisti fu il famigerato Donato De Donatis, il maggiore alleato del capobanda Giuseppe Costantini, detto Sciabolone. Donato De Donatis nacque nel 1761 a Fioli, frazione di Rocca Santa Maria, da Gregorio e Annantonia Bilanzola di Acquaratola e fu avviato al sacerdozio dai familiari. Sebbene fosse stato consacrato sacerdote, egli colse l’occasione offertagli dai disordini del 1799 per costituire una banda di briganti che si dedicava a saccheggi, accompagnati sovente da stupri ed assassini.
Curiosamente questa comitiva di delinquenti era capeggiata da tre sacerdoti, il capobanda don Donato De Donatis appunto, assieme a don Carlo Emidio Cocchi ed a don Donato Naticchia. Era presente anche un ex frate, di nome Vincenzo Benignetti, originario di Camerino, che aveva praticamente le funzioni di giullare nella banda ed era un pregiudicato diverse volte incarcerato perché colpevole di truffe e furti.
De Donatis era in teoria un ecclesiastico, ma il suo comportamento era decisamente contrario alle norme morali cattoliche, giacché, oltre agli atti briganteschi in senso proprio, era anche un bestemmiatore ed aveva un’amante francese fissa. De Donatis era però bisessuale e pedofilo e si dedicava a violentare i ragazzini.
Il già citato Michele Caruso era anche un maniaco sessuale, colpevole di moltissimi stupri. Anna Belmonte, contadina di bell’aspetto, il 19 settembre 1862 nella masseria di suo padre subì una rapina da parte di tre briganti della banda Caruso, che saccheggiarono l’abitazione, prima d’andarsene. Costei, fortemente spaventata, andò a rifugiarsi nell’abitazione d’un vicino di casa, tale Saverio Carbone, nella quale però si trovava Caruso, che dopo averla picchiata la violentò davanti alla stessa moglie di Carbone.
Dopo lo stupro di Anna Belmonte, Caruso se ne andò e s’imbatté poco più tardi, in vicinanza della masseria S. Auditorio, in una ragazza adolescente. Il capobrigante ordinò a suoi tre briganti di violentarla, il che avvenne davanti alla banda e sodomizzando la giovane. Si noti il particolare che Caruso in questa circostanza non violentò personalmente questa donna, avendone appena stuprata un’altra, ma ordinò ai suoi uomini di farlo:
egli non fu mosso quindi dalla volontà di cercare soddisfazione sessuale, ma dal gusto di fare del male. Beninteso, questi sono soltanto alcuni dei casi di stupro compiuti da Caruso o dalla sua banda: ad esempio, nei pressi di Morcone in contrada Cuffiano, una ragazza adolescente fu violentata sino alla morte da quasi tutti i componenti della banda, come attestò in seguito il medico legale.
La banda brigantesca di Michele Caruso, recandosi nel paese di S. Angelo dei Lombardi, s’imbatté in località Bisaccia in quindici donne impegnate nel lavoro nei campi, che furono sequestrate e violentate a turno: due adolescenti finirono col morire in conseguenza della violenze subite.
Ma gli stupri compiuti dai briganti furono in numero incalcolabile e perpetrati da bande ovunque. agissero Ad esempio, sei briganti il 28 giugno 1861 stupravano sotto la minaccia delle armi Maria Michela Rao nel paese di Pratella. Il 30 giugno 1861 vicino ad Isernia, in contrada Pietra Bonata, una banda di briganti violentava a turno Maria Giuseppa Placento. Il 14 febbraio 1866 quattro briganti della banda Ciccone faceva irruzione nel piccolo villaggio di Campozillone e rapiva Antonia de Luca, che era parente di uno dei delinquenti, tale Benedetto de Luca. I briganti dopo aver sequestrato la giovane la portavano in un bosco e la violentavano a turno e per diversi giorni.
Crocco medesimo durante il processo del 1872 a Potenza alla domanda che riguardava gli stupri compiuti rispose in termini sì vaghi e reticenti, ma di sostanziale ammissione, paragonandosi al beccafico, ossia ad un uccello che becca quando e dove vuole, con una chiara metafora sessuale.
Sono provati inoltre i rapporti fra briganti ed organizzazioni criminali di tipo mafioso La mafia siciliana nel suo sviluppo a cavallo fra Settecento ed Ottocento attinse alla natura feudale della società e delle istituzioni borboniche. Difatti, sia le milizie private dei latifondisti, sia i reparti di polizia erano reclutati, già nel Settecento siciliano, fra i criminali:
"Noi sappiamo però che i campieri, non diversamente dai militi a cavallo e dalle guardie municipali che dovrebbero conservare l'ordine tra le campagne, vengono usualmente tra ex-banditi in grado di intimorire i malintenzionati (abigeatori, taglieggiatori, ladri di passo) con i loro stessi argomenti, ovvero all'occorrenza accordarsi con essi nella logica del buon vicinato [...]; gli uni e gli altri vengono usualmente chiamati mafiosi dai contemporanei" [SALVATORE LUPO, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma 1993, pp. 4-5].
Ancora ai tempi del “prefetto di ferro” Cesare Mori, che intervenne con durezza contro la mafia per ordine di Mussolini, i briganti erano collusi con i mafiosi.
Spostandosi in Campania, le bande brigantesche attive nei dintorni di Napoli erano legate alla camorra. Il più famoso brigante del Napoletano, Antonio Cozzolino detto Pilone, era notoriamente in affari con i camorristi e si dedicava alle loro stesse attività, dal contrabbando all’estorsione. Ma anche altri capibanda dei pressi di Napoli furono camorristi od amici dei camorristi.
Due “famiglie” di camorristi attivi negli anni ’50-’60 del secolo XIX, i Maiello di Somma ed i Pipolo di Pomigliano, praticavano assieme attività strettamente “camorristiche” con altre di tipo brigantesco. Ma lo stesso era accaduto negli anni ’40-’50 dello stesso secolo, sotto Ferdinando II di Borbone, con le “famiglie” camorristiche dei Monda e dei Sarno, che spadroneggiavano nella zona di Somma, Nola, Marigliano ecc. Contrabbando, estorsione e controllo mafioso dei mercati, corruzione, ingerenze negli appalti criminali erano le attività comuni di questi camorristi/briganti.
Uno dei più famigerati capi camorristici dell’Ottocento, Aniello Ausiello detto “re della zumpata”, vendeva armi ai briganti e diventò infine brigante egli stesso. Etc. etc. etc.
I capibanda stessi riconoscevano per iscritto (se e quando sapevano leggere e scrivere, ciò che avveniva di rado) che i loro uomini erano delinquenti. Al momento dell’arresto, l’ufficiale spagnolo J. Borjes, spedito da Francesco II nel Mezzogiorno per “guidare” i briganti, ammise che si stava recando dal Borbone a Roma per dirgli che questi non aveva altro che “miserabili e scellerati” dalla sua parte, che Crocco era un criminale della peggior specie e Langlois un bruto:
«J’allais dire au roi Francois II qu’il n’y a que des miserables et des scelerats pour la defendre que Crocco est un sacripant et Langlois un brute».
Borjes nel suo diario privato esprimeva quindi giudizi durissimi su Carmine Crocco, che così riassume lo storico Aldo Albònico nel suo studio:
«Lo spagnolo rimproverava al brigante di essere: il maggiore ladro da lui mai conosciuto; un vigliacco che faceva sostenere agli spagnoli le azioni più pericolose e non si azzardava ad uscire dal territorio conosciuto; un meschino timoroso di perdere il denaro accumulato con le ruberie; un presuntuoso, preoccupato di perdere parte della propria autorità in caso venisse data alla lotta un’organizzazione davvero militare». [A. ALBÒNICO, La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia, Milano 1979, p. 72].
Lo stesso scriveva Pasquale Romano detto “sergente Romano” dei suoi briganti:
«Ma siccome in questi esistea il solo sentimento di Rubbare e non mai quello di farsi onore di eguaglianza al mio, incominciavano ad agitarsi contro di me, permettendosi dire fra di lori stessi, noi siamo uscito in campagna e siamo chiamati Ladri e dobbiamo Rubbare e se il nostro Capo non fa come diciami, mala morte farà oppure resterà solo».
Il passo, pur sgrammaticato, è chiaro: i banditi capeggiati da Romano volevano darsi al furto ed erano disposti ad uccidere il loro capo, qualora avesse cercato d’impedirglielo.
I briganti non rifuggivano dall’ammazzarsi l’un l’altro, in vendette o “regolamenti di conti” fra bande rivali. Nel 1799 la banda dei briganti Fontana liquidò fisicamente quella dei briganti Rondinoni. Un paio di briganti furono seppelliti vivi nella fossa comune nella cattedrale di Teramo, rinchiudendoli assieme a tutti gli altri corpi e lasciandoli perire in questo modo, per asfissia o putrefazione. Un altro finì decapitato e la sua testa fu presa a calci dai Fontana.
Tra gli accoliti del “sergente Romano”, due briganti chiamati Elia e De Martini uccisero un altro bandito, tale Francesco Monaco di Ceglie Messapica. Il brigante Monaco aveva rapito una contadina, Rosa Martinelli, costringendola a diventare la sua schiava sessuale ed ad unirsi alla banda. Gli altri due briganti lo fecero fuori perché volevano sostituirsi a lui nel “possesso” della contadina sequestrata.
Due mercenari stranieri al servizio di Francesco II nel suo soggiorno romano, Tristany e Zimmermann, fecero fucilare il brigante Chiavone ed alcuni suoi banditi il 28 giugno 1862 nella località detta valle dell’Inferno. Tristany e Zimmermann erano fra i mercenari di cui il Borbone in esilio si serviva per cercare di attizzare il brigantaggio nel Meridione. La morte del brigante Chiavone fu seguita da altri “regolamenti di conti” fra i membri della sua banda, accompagnati da torture. Un brigante fu ammazzato dai suoi complici venendo appeso a testa in giù dal ramo di un albero e lasciato morire in questo modo. [A. ALBÒNICO, La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia, Milano 1979]
Non pochi briganti furono dei veri e propri antropofagi, che mangiavano carne umana. Il caso più famoso è quello di Gaetano Mammone, il cui cannibalismo è attestato da molte fonti, incluse quelle di parte borbonica. Ma molti altri briganti mangiarono carne umana, come i componenti della banda La Gala che sequestrarono, torturano ed infine divorarono un loro ex complice (in Val Caudina).
Non di rado i briganti assassinavano anche i bambini. Ad esempio, la banda di Michele Caruso massacrò il 7 settembre 1863, nella località di Cancinuto di Castelvetere Val Fortore, diciotto persone, fra cui anche bambini. Un altro noto brigante, Francesco Mozzato soprannominato “Bizzarro”, ammazzò brutalmente il proprio figlio da poco nato. Nel corso d’un violento tumulto brigantesco nella città di Gioia del 28 luglio 1861 avvennero diversi assassini, fra cui quello di un bambino d’otto anni, ammazzato a colpi d’ascia perché “colpevole” d’aver detto che voleva Vittorio Emanuele II per re.
La quantità di delitti compiuti dai briganti è tale da impedire che siano anche solo riassunti in breve, poiché sono stati certamente nell’ordine delle decine e decine di migliaia. Un noto studioso del brigantaggio, Basilide Del Zio (“Melfi e le agitazioni nel melfese. Il brigantaggio”, Melfi 1905), indica con molta precisione che, nel solo territorio di Melfi e nel solo 1863 (quindi in un luogo ed un periodo di tempo molto limitati), avvennero 175 assassini, 130 ferimenti e mutilazioni, 81 stupri, 800 fra furti e rapine, 200 incendi dolosi, 350 ricatti ad opera delle bande. Questo era avvenuto soltanto nel 1863 e soltanto nel Melfese. Quanti sono stati allora i delitti dei briganti, che imperversarono per secoli e secoli ed in tutto il Mezzogiorno.
Quelle espresse in questo articolo sono le opinioni dell’autore, che non corrispondono necessariamente a quelle de "Lo Schiaffo 321". Immagini tratte dalla rete.
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