Alle spalle di questi Briganti ci sarebbero stati, in base agli atti processuali, i vertici del Regno Pontificio in accordo con i Borbone. La Roma clericale nel periodo 1861-1864 divenne luogo di rifugio e di salvezza per i ribelli a Garibaldi e soci. Infatti, i La Gala si rifugiarono proprio a Roma sotto la protezione della Chiesa. Entrambi vennero successivamente imbarcati su una nave francese ed inviati da Francesco II a Marsiglia e poi a Barcellona con lo scopo di reclutare degli guerriglieri da affiancare ai Briganti ed organizzare così una rivolta popolare di massa, unica strada percorribile all'epoca per poter riportare i Borbone sul trono di Napoli. Durante una "strana" sosta della nave nel territorio italiano di Civitavecchia che i La Gala vennero scoperti, acciuffati e arrestati con addosso i passaporti dello Stato della Chiesa e non venne richiesta nessuna autorizzazione allo Stato francese.
Nelle pagine del Processo dei briganti borbonici Cipriano e Giona La Gala, scritto da Domenico Papa e Giovanni D'Avanzo nel 1864 per la Tipografia della Gazzetta di Reggio Emilia, l'episodio più cruento è riportato nel processo portato a avanti dal febbraio al marzo 1864 dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere contro i capi di una delle bande che infestò soprattutto l'area della Valle Caudina, tra il Partenio e il Taburno, facente capo ai fratelli Giona e Cipriano La Gala, nativi di Nola, ma operativi in Valle Caudina.
Furono condannati a morte, pena poi tramutata in carcere a vita, per l'uccisione ed il successivo atto cannibalesco compiuto dai due fratelli contro Francesco De Cesare, al quale imputarono di averli traditi. I due briganti Cipriano e Giona La Gala, criminali prima dell'Unità d'Italia, o presunta tale, riuscirono nel 1860 ad evadere dal carcere di Castellammare di Stabia, approfittando del clima di generale confusione, probabilmente aiutati da qualcuno. Si trovava in cella con loro un tal Francesco De Cesare, il quale commise durante una lite con i due fratelli l’errore, poi rivelatosi fatale, di schiaffeggiare Giona.
L’episodio sembrava ormai consegnato all’oblio, quando diversi mesi dopo il fatto (settembre 1861), i la Gala inviarono all’ex compagno (nel frattempo tornato sulla strada della legalità) un contadino Caudino, tal Cosimo Matera, per chiedergli di raggiungerli per un incontro amichevole. Nonostante fosse stato messo in guardia sulle intenzioni dei due masnadieri, decise comunque di accettare; arrivato nella la località convenuta, il borgo di Pizzillo, De Cesare fu inizialmente accolto con entusiasmo e cameratismo dai La Gala, che gli si gettarono al collo, baciandolo ed abbracciandolo.
Ma le cose avrebbero preso molto presto una piega ben diversa. Arrivati alla masseria occupata dai briganti, Cipriano urlo: “Giona, scannalo!”. Un sodale dei due fuorilegge, Antonio Saracino, balzò allora con una corda, legando lo sfortunato che venne trafitto da decine e decine di pugnalate per poi essere finito con un colpo di fucile nel petto. Una volta ucciso, il De Cesare venne decapitato, gli fu messa una pipa in bocca e la testa collocata sul davanzale della masseria. Il corpo venne invece tagliato, gli fu tolto il grasso ed il resto venne abbrustolito e mangiato dalla banda in Terra Caudina.
La fine dei vinti
Per approfondire vi consigliamo La Fine dei Vinti scritto dall'amico Fiore Marro, scrittore e attivista duosiciliano di origini Cervinaresi. Riportiamo per le lettrici ed i lettori de Lo Schiaffo 321 una parte dell'introduzione scritta da Pasquale Costagliola, Presidente dell'associazione “Terra Nostra”, sulla piattaforma Bel Salento:
"Il libro di Fiore Marro parte da un vero processo, ripercorre le vicende della banda dei fratelli La Gala che operavano per conto dei Borbone nell’antico distretto di Terra di Lavoro, uno dei più estesi del Regno di Napoli. Ma il vero protagonista della storia avvincente de “La fine dei vinti” è il poliziotto Giovanni D’Avanzo, svestito dai panni di uomo di legge per percorrere la strada di brigante.
Perché leggere questo libro? Perché si ha la possibilità di considerare i briganti, oltre che nelle azioni di guerriglia, anche nel loro “quotidiano”: svelati da testimonianze, da ammissioni, mentre evidenziano i loro giorni sotto la pioggia, espongono le loro bassezze e il loro eroismo, scoprirli mentre confermano del loro sfamarsi quando, come e dove possono e dissetarsi con neve sciolta.
Percorrendo il libro di Fiore a tratti sembra apparire l’autore tra i protagonisti del racconto, per il suo modo di descrivere quello che D’Avanzo ha vissuto o quello che si apprende dalle testimonianze da persone non sempre oneste ma in taluni casi degne di fede.
La tragica novità di questo lavoro è che il lettore si riscopre fan dei “cattivi”, prova lo stesso dolore, l’identica angoscia del protagonista, un dolore lungo che arriva sino ai giorni nostri. Quelle tragedie subite ad opera dei piemontesi, invece di intimorire rinforzavano il coraggio; si volevano esaltare i successi delle forze dell’ordine con processi farsa a scapito dei “briganti”, descritti e rappresentati come bestie efferate. Non so che effetto facessero allora quelle ciarlatanerie processuali sul pubblico, a me oggi suscitano profonda indignazione per l’inumanità dei vincitori. Così si faceva l’unità d’Italia.
Il messaggio del romanzo di Fiore Marro è però un altro, egli evidenza la sciagura accaduta alla gente del sud, dove il gendarme diventa brigante, dove l’ingannatore diventa il modello da imitare; qui, invece, l’autore si sforza di rimettere nel legittimo ruolo personaggi e prototipi.
Per dire la Vostra, contattateci all'indirizzo di posta elettronica caudiumpatrianostra@gmail.com oppure tramite Twitter @SchiaffoLo
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