La crisi del mondo moderno
Cap. 3 - parte iI
Conoscenza e azione
Le dottrine orientali, ed anche le antiche dottrine occidentali, sono unanimi nell’affermare che la contemplazione è superiore all’azione, come l’immutabile è superiore al mutamento. L’azione, essendo solo una modificazione transitoria e momentanea dell’essere, non potrebbe avere in se stessa il suo principio e la sua ragion sufficiente; se essa non si ricollega ad un principio che è al di là del suo dominio contingente, non è altro che pura illusione;
e questo principio da cui trae tutta la realtà di cui è suscettibile, la sua esistenza e la sua stessa possibilità, non può trovarsi che nella contemplazione o, se si preferisce, nella conoscenza, poiché, in fondo, questi due termini sono sinonimi o, quantomeno, coincidenti: la conoscenza e l’operazione con cui la si persegue non possono in alcun modo essere separate.
Del pari, il mutamento, nella sua accezione più generale e in mancanza di un principio da cui procedere, è inintelligibile e contraddittorio, e cioè impossibile; e tale principio, per il fatto stesso che è il suo, non può essergli sottomesso, quindi è necessariamente immutabile; è per questo che nell’antichità occidentale Aristotele aveva affermato la necessità del «motore immobile» di tutte le cose. Questo ruolo di «motore immobile», in rapporto all’azione, viene svolto precisamente dalla conoscenza; è evidente che l’azione appartiene interamente al mondo del cambiamento, del «divenire», e solo la conoscenza permette di uscire da questo mondo e dalle limitazioni ad esso inerenti; ed allorché raggiunge l’immutabile, come nel caso della conoscenza principiale o metafisica che è la conoscenza per eccellenza, possiede essa stessa l’immutabilità, poiché ogni conoscenza vera è essenzialmente identificazione col suo oggetto.
È proprio quello che ignorano gli Occidentali moderni, i quali, in fatto di conoscenza, concepiscono solo più una conoscenza razionale e discorsiva, dunque indiretta ed imperfetta, quella che si potrebbe chiamare una conoscenza per riflesso; e per di più, essi apprezzano perfino questa conoscenza inferiore nella misura in cui essa può servire in maniera immediata per dei fini pratici; impegnati nell’azione al punto da negare tutto ciò che la oltrepassa, non si accorgono che questa stessa azione, in mancanza di principio, degenera in una agitazione tanto vana quanto sterile.
In effetti, è proprio questo il carattere più visibile dell’epoca moderna: un bisogno incessante d’agitazione, di cambiamento continuo, di velocità sempre crescente, come quella con cui si svolgono gli stessi avvenimenti. È la dispersione nella molteplicità, in una molteplicità non più unificata dalla coscienza di alcun principio superiore; nella vita ordinaria come nelle concezioni scientifiche, è l’analisi spinta all’estremo, un’indefinita suddivisione, una vera disgregazione dell’attività umana in tutti gli ambiti in cui può ancora esercitarsi; e da qui l’inattitudine alla sintesi, l’impossibilità di ogni concentrazione: così sorprendente agli occhi degli Orientali.
Si tratta esattamente delle conseguenze naturali ed inevitabili di una materializzazione sempre più accentuata, poiché la materia è essenzialmente molteplicità e divisione; ed è per questo, detto di sfuggita, che tutto ciò che ne deriva non può procurare che lotte e conflitti di ogni genere, così fra i popoli come fra gli individui. Più si affonda nella materia, più gli elementi di divisione e di opposizione si accentuano e si ampliano; al contrario, più ci si eleva verso la spiritualità pura, più ci si approssima all’unità, che può essere pienamente realizzata solo tramite la coscienza dei principi universali.
La cosa più strana è che il movimento ed il cambiamento sono veramente ricercati per se stessi e non in vista di uno scopo qualunque al quale potrebbero condurre; e questo deriva direttamente dal fatto che tutte le facoltà umane sono assorbite dall’azione esteriore, di cui abbiamo appena segnalato il carattere momentaneo.
Si tratta sempre della dispersione vista sotto un altro aspetto e ad uno stadio più accentuato: vi è, si potrebbe dire, come una tendenza all’istantaneità, avente per limite uno stato di puro squilibrio, il quale, se potesse essere raggiunto, coinciderebbe con la dissoluzione finale di questo mondo; ed anche questo è uno dei segni più chiari dell’ultimo periodo del Kali-Yuga.
Da questo punto di vista, lo stesso accade nell’ordine scientifico: la ricerca per la ricerca, molto più che per i risultati parziali e frammentari ai quali essa conduce; la successione sempre più rapida di teorie e d’ipotesi senza fondamento, le quali, non appena composte, subito dopo crollano, per essere rimpiazzate da altre che dureranno ancora meno; un vero caos, in mezzo al quale sarebbe vano cercare qualche elemento acquisito una volta per tutte, una mostruosa accumulazione di fatti e di particolari che non possono provare niente e niente possono significare.
È chiaro che ci riferiamo al punto di vista speculativo, nella misura in cui esso ancora sussiste, perché per quanto attiene alle applicazioni pratiche, si riscontrano invece dei risultati incontestabili, e la cosa si comprende facilmente, dal momento che tali applicazioni si riferiscono direttamente al dominio materiale e dal momento che tale dominio è il solo in cui l’uomo moderno possa vantare una reale superiorità.
Bisogna dunque aspettarsi che le scoperte, o piuttosto le invenzioni meccaniche ed industriali, vadano sempre più sviluppandosi e moltiplicandosi, anch’esse con crescente rapidità, fino alla fine dell’età attuale; e chissà se con i pericoli di distruzione che comportano non saranno proprio esse uno dei principali agenti dell’ultima catastrofe, se effettivamente le cose giungeranno al punto che questa non potrà essere evitata.
In ogni caso, si prova generalmente l’impressione che, allo stato attuale, non vi sia più alcuna stabilità; ma, mentre alcuni sentono il pericolo e cercano di reagire, la maggior parte dei nostri contemporanei si compiace di questo disordine, in cui riconosce come un’immagine esteriorizzata della propria mentalità. E in effetti, vi è un’esatta corrispondenza fra un mondo in cui tutto sembra essere in puro «divenire», in cui non vi è alcun posto per l’immutabile ed il permanente, e la condizione di spirito degli uomini che fanno coincidere ogni realtà con questo stesso «divenire», cosa questa che implica la negazione della vera conoscenza al pari dell’oggetto stesso di questa conoscenza, e cioè dei principi trascendenti ed universali.
Si può perfino andare oltre: si tratta della negazione di ogni conoscenza reale, in qualsivoglia ordine, perfino nel relativo, poiché, come abbiamo detto in precedenza, il relativo è inintelligibile ed impossibile senza l’immutabile, come la molteplicità senza l’unità; il «relativismo» è affetto da una implicita contraddizione: quando si vuole ridurre tutto al cambiamento, si dovrebbe poi giungere, logicamente, a negare perfino l’esistenza del cambiamento stesso; in fondo, i famosi argomenti di Zenone d’Elea non avevano che questo significato. In effetti, bisogna dire che teorie come queste non sono esclusivamente proprie ai tempi moderni, poiché non bisogna neanche esagerare; se ne possono trovare degli esempi nella filosofia greca, ed il caso di Eraclito, con il suo «fluire universale», è il più conosciuto in proposito, e fu perfino uno dei motivi che indusse gli Eleati a combattere queste concezioni, al pari di quelle atomiste, con una sorta di riduzione all’assurdo.
Nella stessa India si riscontra qualcosa di simile, ma, ben inteso, da un punto di vista diverso da quello della filosofia; alcune scuole buddhiste, in effetti, presentarono lo stesso carattere, poiché una delle loro tesi principali era quella della «dissolubilità di tutte le cose». Solo che queste teorie non erano, allora, che delle eccezioni, e quelle rivolte contro lo spirito tradizionale che si sono prodotte nel corso di tutto il Kali-Yuga avevano, in fondo, una portata assai limitata; la novità è costituita dalla generalizzazione di simili concezioni, così come la constatiamo nell’Occidente moderno.
Occorre anche notare che le «filosofie del divenire», sotto l’influenza dell’idea molto recente di «progresso», hanno assunto nel mondo moderno una forma particolare, forma che le teorie dello stesso genere non avevano mai avuto nel mondo antico: questa forma, suscettibile peraltro di molte varietà, è quella che si potrebbe chiamare, in linea generale, col nome di «evoluzionismo». Non ripeteremo ciò che abbiamo già detto altrove sull’argomento, e ricordiamo solo che ogni concezione che non ammette nient’altro che il «divenire» è necessariamente, per ciò stesso, una concezione «naturalista» che, come tale, implica una negazione formale di ciò che è al di là della natura, e cioè una negazione del dominio metafisico, il quale è quello dei principi immutabili ed eterni.
Segnaliamo anche, a proposito di queste teorie antimetafisiche, che l’idea bergsoniana della «pura durata» corrisponde esattamente a quella dispersione nell’istantaneo di cui parlavamo prima; la pretesa intuizione che si modella sul flusso incessante delle cose sensibili, lungi dal poter essere il mezzo per una vera conoscenza, rappresenta in realtà la dissoluzione di ogni conoscenza possibile.
Questo ci induce a ripetere ancora una volta, trattandosi di un punto del tutto essenziale e sul quale è indispensabile non lasciar sussistere alcun equivoco, che l’intuizione intellettuale, la sola tramite cui si ottiene la vera conoscenza metafisica, non ha assolutamente niente in comune con quell’altra intuizione di cui parlano certi filosofi contemporanei: quest’ultima appartiene all’ordine sensibile, ed è propriamente infra-razionale, mentre l’altra, che è l’intelligenza pura, è invece sopra-razionale.
Ma i moderni, che nel dominio dell’intelligenza non conoscono nulla di superiore alla ragione, non concepiscono neanche cosa possa essere l’intuizione intellettuale, mentre invece le dottrine dell’antichità e del Medio Evo, anche quando avevano solo un carattere semplicemente filosofico e quindi non potevano effettivamente fare appello a tale intuizione, ne riconoscevano tuttavia l’esistenza e la superiorità rispetto a tutte le altre facoltà. Ecco perché non esisteva il «razionalismo» prima di Cartesio; è anch’esso infatti un prodotto specificamente moderno, peraltro strettamente solidale con l’«individualismo», dal momento che non è altro che la negazione di ogni facoltà di ordine sopra-individuale.
Fintanto che gli occidentali si ostineranno a disconoscere o a negare l’intuizione intellettuale, non potranno avere alcuna tradizione nel vero senso della parola, e non potranno neanche intendersi con gli autentici rappresentanti delle civiltà orientali, nelle quali tutto è come appeso a questa intuizione, immutabile ed infallibile in se stessa ed unico punto di partenza di ogni sviluppo conforme alle norme tradizionali.
Scritto da René Guénon.
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