Il vaso di Assteas: storia vera di un giallo internazionale a lieto fine
Considerato uno dei vasi più belli del mondo, realizzato nel IV° secolo a.C. da Assteas, rinomato vasaio di Paestum, fu trafugato negli anni ’70 da una tomba di Sant’Agata dei Goti, in Campania, finendo al Getty Museum di Los Angeles. Fu restituito nel 2005 al termine di una lunga indagine degli inquirenti italiani che, nel 2019, è stata raccontata in un fumetto
“Il toro ha il colore della neve che non è mai stata calcata dalla pianta di un duro piede né sciolta dall’Austro piovoso.(…) Nessuna minaccia in fronte, lo sguardo non fa paura, il muso è in pace. Lo contempla la figlia di Agenore…come è bello, e non minaccia battaglie; ma, per quanto mite, lei ha dapprima paura a toccarlo, poi gli si accosta e porge fiori davanti al candido muso. Ne gode l’innamorato e, in attesa del piacere che spera, le bacia le mani (…) ora scherza e le salta intorno sull’erba verde, ora stende il candido fianco sulla sabbia bionda e, tolto un po’ alla volta il timore, le offre il petto da toccare con la mano virginea, e le corna da inghirlandare di fiori freschi”.
In queste parole del celebre poeta latino Ovidio è racchiusa tutta la magia del mito, quello del ratto della principessa fenicia Europa da parte di Zeus manifestatosi in forma di toro. Questo episodio, cristallizzato in un’immagine di classica bellezza, lo vediamo campeggiare sul lato principale di quello che in molti considerano il vaso greco più bello del mondo: il Cratere di Assteas, splendido manufatto modellato e dipinto tra il 350 e 320 a.C. nella bottega di uno dei ceramografi più rinomati dell’antica città fondata da Sibari sulla costa tirrenica col nome di Posidonia, ridenominata Paistom dai Lucani e Paestum dai Romani. La paternità dell’opera – un cratere a calice a figure rosse – è comprovata dallo stesso autore che se lo attribuisce con una iscrizione nel corpo centrale del vaso: “ΑΣΣΤΕΑΣ ΕΓΡΑΦΕ“ (Assteas dipinse). Titolare di un grande laboratorio in cui si producevano hydriai e crateri – i primi destinati a contenere acqua e i secondi usati per mescolare il vino con varie spezie, secondo il rituale del simposio greco, decorati soprattutto con scene mitologiche e teatrali -, è uno dei pochi artisti dell’antichità di cui ci sia pervenuto il nome.
ICONOGRAFIA DI UN MITO SENZA TEMPO
Il vaso di Assteas – un cratere alto più di 70 cm e con un diametro di 60 cm – è conosciuto soprattutto per la scena del ratto d’Europa, la bellissima figlia del re fenicio Agenore e della regina Telefassa. Il mito vuole che la fanciulla si recasse spesso con amiche e ancelle sulle rive del mare dove Zeus la vide innamorandosene perdutamente. Il re dell’Olimpo decise allora di scendere sulla terra assumendo le sembianze di un bellissimo toro bianco intento a pascolare a poca distanza dalla fanciulla, la quale, attratta dall’eleganza e dalla mansuetudine dell’animale, prese ad accarezzarlo, salendogli infine in groppa quasi per gioco; il dio-toro corse in direzione del mare, e anche oltre, approdando infine sull’isola di Creta, all’ombra di un albero; qui riprese le sue vere sembianze e si congiunse alla giovane Europa; dalla loro unione nacquero Minosse, Radamanto e Sarpedonte.
Sul cratere la fanciulla è raffigurata in groppa al toro, con lunghi capelli sciolti, una ricca veste e un velo mosso dal vento; una mano afferra uno dei corni del possente animale ai cui piedi stanno Scilla e Tritone fra vari esseri marini, che simboleggiano il mare attraversato dalla mitica coppia.
Intorno al capo di Europa svolazza l’erote Pothos, allegoria del desiderio erotico, mentre sparge profumi con un ramo da una coppetta che regge nella mano. La fanciulla, pur rapita con l’inganno e ormai sedotta dal dio, guarda davanti a sé verso Creta.
Nella parte alta della scena troviamo due sezioni triangolari, ciascuna con tre personaggi: a sinistra Zeus (in forma antropomorfa), la personificazione di Creta e Hermes, il dio protettore dei viaggiatori; a destra compaiono invece Eros, Adone e Afrodite, figure a vario titolo legate alla tematica erotica. Le figure sono facilmente riconoscibili grazie ai nomi graffiti accanto a ciascuna di esse.
La simbologia di questo mito appare complessa e discussa da secoli (si va dall’evocazione di un’epoca in cui dominava il matriarcato, all’idea che il rapimento simboleggi il passaggio della donna dall’età adolescenziale all’età adulta, all’avvento di stirpi elleniche sull’isola di Creta, alla colonizzazione da parte dei popoli indoeuropei dell’attuale Europa); certo è che esso compare già in alcune incisioni di epoca pre-ellenica, mentre una delle più antiche raffigurazioni d’ambito greco si trova in Sicilia su una metopa del tempio cosiddetto “Y” di Selinunte, databile ai primi decenni del VI secolo a.C., attualmente conservata presso il Museo Archeologico Salinas di Palermo.
Sul lato opposto del vaso troviamo invece una scena dionisiaca, dominata dalla presenza del dio Dionisio, raffigurato giovane e nudo, in posizione centrale, accompagnato da una menade (sulla sinistra) e da un sileno (sulla destra).
UN GIALLO INTERNAZIONALE
Se diversi sono i vasi attribuiti ad Assteas o alla sua bottega conservati in diversi musei del mondo, questo ritrovato casualmente in Campania nei lontani anni ’70 e finito poco dopo nel più ricco museo degli Stati Uniti, è stato al centro di un vero e proprio giallo internazionale. Andiamo quindi a ripercorrerne le vicende fin da quando nel 1974 venne trafugato durante uno scavo nell’area dell’antica città sannita di Saticula (l’odierna Sant’Agata de’ Goti, in provincia di Benevento). Il prezioso vaso apparteneva a una sepoltura patrizia nella quale era stato deposto come corredo funebre, rimanendo interrato per secoli. Il tombarolo, un operaio campano che lo ritrovò accidentalmente durante i lavori per una condotta fognaria, ne documentò il rinvenimento scattando qualche Polaroid da tenere per ricordo, dopodiché lo vendette a due mercanti locali di arte antica ottenendo in cambio un milione e un maialino. Il vaso, seguendo un copione ricorrente nel traffico illecito di reperti trafugati in Italia, finì in un deposito in Svizzera in attesa di trovare un acquirente. Tra la data del trafugamento (1974) e il suo rientro in Italia (2005) sono passati 31 anni, ma il velo sui misteri della sua sparizione fu casualmente squarciato nel 1994 in un intreccio di vicende apparentemente senza alcuna connessione…
IL COLPO AL CASTELLO
Castello di Melfi – Basilicata [20 gennaio 1994, ore 13.45]
Quel freddo pomeriggio d’inverno, le sale adibite a museo del millenario castello di Melfì – là dove erano a lungo passati, da protagonisti o prigionieri, sovrani, prelati e papi, dove il grande Federico II di Svevia aveva promulgato le sue celebri Costituzioni – erano deserte. Ogni tanto vi riecheggiavano i passi del custode Luigi alle prese col suo consueto giro di ricognizione nell’ala a lui assegnata. In pochi attimi si ritrovò legato a una sedia da tre uomini armati piombati come falchi a depredare otto vasi greci. Sfondate le vetrine in cui erano esposti, li portarono via sgommando su un’automobile con targa svizzera, come più tardi fu riferito dagli altri custodi del museo accortisi del raid quando ormai era troppo tardi.
OPERAZIONE GERIONE
Le indagini furono immediatamente affidate ai Carabinieri del Reparto Operativo Tutela Patrimonio Culturale, un gruppo di investigatori di prim’ordine unico nel suo genere a livello mondiale, a quel tempo diretto da Roberto Conforti, un ufficiale con vasta esperienza nella lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. Nasceva così l’Operazione Gerione, la cui base fu fissata nel napoletano avendo gli inquirenti notato che da Casal di Principe partiva un gran numero di telefonate verso la Sicilia, la Germania e la Svizzera. Grazie a intercettazioni e pedinamenti, gli inquirenti si imbatterono in un tal Pasquale Camera, ex capitano della Guardia di Finanza messosi in affari con scavatori clandestini e trafficanti d’arte, per cui cominciarono a tenerlo d’occhio.
UN INATTESO COLPO DI SCENA
Intanto in Germania, su richiesta della Grecia, le autorità tedesche stavano per perquisire la casa di un commerciante di antichità a Monaco di Baviera sospettato di ricettare reperti di provenienza greca. Il caso volle che si trattasse dell’italiano Antonio Savoca, detto Nino, quindi gli inquirenti tedeschi decisero di coinvolgere anche i loro colleghi italiani. La mattina del 14 ottobre 1994 scattò così il blitz nella villa del mercante e, tra centinaia di reperti, alcuni dei quali ancora sporchi di terra, furono ritrovati anche i vasi rubati a Melfi nove mesi prima. Dai diari del mercante, fitti di preziose informazioni, si apprese che a fornire i vasi di Melfi erano stati il capozona di Casal di Principe, Luigi Coppola, e l’ex ufficiale della GdF Pasquale Camera. Agli inizi del 1995 finalmente i vasi poterono tornare a Melfi e riprendere il loro posto nel Museo. Ma qualcosa di imprevisto stava per accadere, incrociandosi inaspettatamente con la storia del vaso di Assteas.
UN FATALE INCIDENTE E UNA MISTERIOSA FOTO
[Austrada Napoli-Roma, 31 agosto 1995, ore 14.30 – 15.00]
Pasquale Camera aveva appena pranzato in un ristorante di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) quando si infilò nella sua Renault 21 e imboccò l’autostrada Napoli-Roma. A Fiumicino lo attendeva una nota e spregiudicata antiquaria svizzera di Zurigo, conosciuta col nikname di Frida, solita venire in Italia per procurarsi antichità. Ma, raccontano le cronache, tra le 14.30 e le 15.00 di quel giorno, all’altezza di Cassino, l’uomo perse il controllo dell’auto schiantandosi contro il guardrail e morendo sul colpo. La notizia della morte non tardò a diffondersi tra gli scavatori clandestini, come rilevato dagli agenti addetti alle intercettazioni. Le forze dell’ordine intervenute sul luogo dell’incidente rinvennero nell’auto dell’uomo alcune foto di reperti archeologici per cui decisero di allertare i Carabinieri del TPC. Tra quelle immagini compariva la polaroid di un vaso greco che – si sarebbe accertato in seguito – altro non era che il Cratere di Assteas. Camera era infatti uno dei due uomini che lo avevano acquistato dallo scopritore. Quella foto fu l’inizio del percorso che avrebbe consentito il rientro in Italia dello straordinario capolavoro dell’arte vascolare antica.
UN CONFRONTO RIVELATORE
Nella foto col vaso, cosa inconsueta, compariva anche il tombarolo che si era fatto ritrarre accanto al suo trofeo: sarebbe stato un peccato trascurare quell’immagine, se non altro perchè avrebbe potuto rappresentare la chiave di volta per l’identificazione del luogo di origine e per un eventuale recupero. Fu questo il pensiero che attraversò la mente dell’allora luogotenente dei Carabinieri Roberto Lai - oggi in congedo ma a suo tempo effettivo presso il Reparto Operativo di Roma del TPC – quando, tempo dopo, ebbe l’occasione di prendere visione di quella foto: “Al momento della morte di Camera - racconta Lai – stavo lavorando a S. Maria Capua Vetere dove erano in corso intercettazioni nell’ambito della Operazione Gerione. Sentimmo gli intercettati fare riferimento alla ”morte del Capitano”; era evidente che si trattava del defunto Pasquale Camera, già capitano della GdF datosi poi al traffico internazionale di opere d’arte. Nel frattempo una pattuglia aveva recuperato dalla sua auto incidentata alcune foto e alcune reperti, ma la svolta avvenne quando perquisimmo la sua abitazione trovando migliaia di altre fotografie.
Qualche anno dopo – prosegue -, il caso volle che fossi impegnato ad analizzare quelle immagini nell’ambito di una nuova inchiesta e non potei fare a meno di notare, tra le altre, quella di un uomo che abbracciava un vaso enorme, splendidamente decorato. Ne rimasi talmente colpito che il giorno dopo, insieme a un collaboratore, decisi di consultare alcune pubblicazioni di archeologia. Iniziammo con un volume del Trendall sui vasi antichi dell’Italia meridionale, edito nel 1981, e il risultato non si fece attendere. In un’immagine pubblicata riconoscemmo il vaso della polaroid: si trattava di un’opera del ceramografo Assteas posseduta dal celebre Getty Museum di Malibu, in California…”
UNA FORTUNATA OSTINAZIONE
Fatta l’incredibile scoperta, Lai decise di parlarne con il compianto magistrato Paolo Giorgio Ferri, punta di diamante nella lotta al traffico internazionale di opere d’arte, scopritore degli organigrammi di un commercio illegale di portata globale che ha visto coinvolti alcuni tra i maggiori musei internazionali, intermediari, mercanti d’arte senza scrupoli e tombaroli attivi sul territorio. Una rete perversa che, al netto dei reati prescritti e quindi dell’impunità derivatane per molti degli imputati, ha subito un duro e decisivo colpo proprio grazie alle inchieste di Ferri. Il magistrato ascoltò il report di Lai sul vaso di Assteas ma espresse le sue perplessità rispetto a un reato per il quale molto probabilmente era già maturata la prescrizione. Il carabiniere decise di non demordere e convinse Ferri dell’opportunità di cercare qualche altro elemento che potesse inchiodare il Getty alle sue responsabilità. Del resto la reputazione del museo era già compromessa da una serie di altri accertamenti che di lì a poco avrebbero portato a varie restituzioni. Lai decise così di tornare a S. Maria Capua Vetere e, sbrigate alcune formalità in Procura, si recò con un collega a Casal di Principe dove entrò spedito in un bar che sapeva frequentato da tombaroli. Individuato uno dei saccheggiatori di spicco della zona, già oggetto di sue passate perquisizioni, gli mostrò la polaroid. Dopo un iniziale tentennamento, l’uomo esclamò: “Ma questo è Sputazzone! Gli hanno comprato un vaso importante per quattro soldi!“. A quel punto Lai pretese di conoscerne il vero nome, scoprendo così trattarsi di un certo Antimo Cacciapuoti. Fatta la segnalazione ai colleghi di Casal di Principe riuscì a identificare l’uomo, che risultò residente nella vicinissima S. Cipriano d’Aversa. Decise così di andarlo a trovare a casa insieme a un avvocato che avrebbe essicurato il rispetto delle garanzie di legge.
L’INCONTRO CON IL TOMBAROLO
Arrivato presso l’abitazione dell’uomo, Lai fu ricevuto dalla moglie, che prontamente rassicurò circa il carattere informale della visita. Cacciapuoti era reduce da un’infarto e con voce flebile invitò il maresciallo e l’avvocato ad entrare. Mentre la signora preparava un caffè, Lai andò subito al sodo mostrandogli la polaroid e chiedendogli se si riconoscesse o meno in quello scatto. L’uomo tentennò ma di fronte all’evidenza si arrese e annuì. A quel punto il maresciallo gli chiese di rilasciare una dichiarazione scritta di paternità del trafugamento con indicazione del luogo del ritrovamento, e gli spiegò che grazie a quel documento sarebbe stato possibile tentare di riportare il reperto in Italia. Discussero per circa un’ora e per smuovere la coscienza dell’uomo giocò abilmente la carta sentimentale non prima di averlo punto nell’orgoglio: “Tu – gli disse – hai ceduto il vaso per 1 milione di lire e un maialino e nel 1981 il Getty lo ha acquistato per oltre 380 mila dollari! Capisci che questa è la nostra storia, la nostra identità?…questo capolavoro - aggiunse con enfasi – deve tornare a casa; è appartenuto ai nostri avi; è tuo, è mio, è del Sannio, è della Campania, è dell’Italia; è il nostro patrimonio culturale e un domani apparterrà ai figli dei nostri figli! Non ha nulla a che fare con la storia degli Stati Uniti, e col tuo aiuto dobbiamo riportarlo a casa!” Le parole di Lai riuscirono nell’intento. L’uomo si rese così disponibile a rendere una spontanea confessione presso i Carabinieri del posto.
I MISTERI DELLA TOMBA VIOLATA
Prima di procedere oltre col racconto, è il caso di ricordare alcuni interessanti dettagli emersi durante l’incontro tra Lai e Cacciapuoti. Quest’ultimo raccontò di essersi trovato con altri operai presso una masseria al confine tra S. Agata de’Goti e Dugenta; lavoravano alla realizzazione di una condotta quando, accortisi che il terreno risultava alquanto pietroso, decisero di variare il tracciato. L’ultimo colpo di piccone aveva però rivelato la presenza di un lastrone di pietra perfettamente rettangolare. Preso da un’irrefrenabile curiosità, Cacciapuoti cercò di sbirciare nella fessura apertasi nell’urto quando la torcia acquistata pochi giorni prima a caro prezzo gli cadde nel vuoto di quel misterioso vano. Deciso a recuperarla, rimosse insieme agli altri i frammenti del lastrone e scoprì la presenza di una tomba contenente un corredo funerario. La prima cosa che balzò ai loro occhi fu l’enorme vaso a figure rosse, ma dentro vi erano anche altri oggetti come un rilievo in terracotta con volto femminile corredato di una preziosa collana; un vaso rython con testa dai tratti negroidi e alcuni altri vasi minori. Caricato il tutto sulla sua FIAT 127, Cacciapuoti trasferì il bottino a casa propria. Era consapevole del reato appena compiuto ma il fascino di quegli oggetti vinse su tutto. “Il corredo – racconta Lai -, le cui caratteristiche fanno pensare a una sepoltura femminile, venne ripulito, ma la cosa terribile è che all’interno del vaso di Assteas c’erano dei rotoli, probabilmente dei manoscritti, polverizzatisi mentre la figlia di Cacciapuoti, all’epoca una bambina di circa dieci anni, tentava di pulirlo. Chissà quali testimonianze abbiamo perso!”.
LA VENDITA – LA FOTO SUPERSTITE
Per immortalare l’inaspettato ritrovamento, Cacciapuoti fece scattare 5 polaroid. L’uomo, inconsapevole del reale valore economico del vaso, promise alla figlia che un giorno quello splendido oggetto sarebbe stato il regalo per il suo matrimonio. In realtà il cratere di Assteas era destinato a rimanere in quella casa per sole due settimane. Diffusasi infatti la voce del ritrovamento, due trafficanti della zona (uno di loro era Pasquale Camera), si presentarono a casa del Cacciapuoti facendogli l’offerta di un milione per tutto il corredo. L’uomo, memore della promessa fatta alla figlia, stava per rifiutare, ma accettò la proposta quando i due gli fecero notare che con quella cifra (siamo alla metà degli anni ’70) avrebbe potuto dare una dote a ciascuno dei suoi nove figli. Dopo qualche giorno i due si ripresentarono per accertarsi della eventuale esistenza di foto del ritrovamento. Avuta notizia delle 5 foto-ricordo, ne pretesero la consegna pagandogliele ben 100 mila lire; ma poiché Cacciapuoti stava per recarsi al mercato a comprare un maialino, volle che i due se ne accollassero la spesa come sovrapprezzo per l’affare concluso; inutile dire che questo era andato a tutto vantaggio dei trafficanti, considerato il valore reale degli oggetti. I due decisero quindi di distruggere quelle foto compromettenti, ma Pasquale Camera volle conservarne una, proprio quella ritrovata nella sua auto dopo l’incidente: una scelta che avrebbe determinato l’esito finale di tutta la storia.
LA PARTITA CON IL GETTY MUSEUM
Era ormai l’aprile del 1999 quando il maresciallo Roberto Lai tornò nello studio del PM Ferri per riferirgli di aver individuato il tombarolo e di averne ottenuto la confessione. L’insistenza del carabiniere e una grande inchiesta parallela che aveva fatto luce sulle responsabilità del Getty nel traffico illecito di reperti, determinarono finalmente Ferri a svolgere più approfondite investigazioni che egli dispose richiedendo assistenza giudiziaria internazionale. Una prima richiesta fu avanzata all’autorità giudiziaria della California al fine di ottenere notizie in ordine alla compravendita del vaso e alla possibilità di una sua restituzione almeno come fonte di prova. Poichè da tali indagini emerse che il reperto era stato venduto al Getty nel 1981 da Gianfranco Becchina, mercante siciliano trapiantato in Svizzera e già indagato per altri reati connessi al traffico illecito di beni archeologici italiani, una seconda richiesta di rogatoria fu inoltrata da Ferri alle autorità svizzere affinché l’uomo venisse sentito dagli inquirenti. L’iter giudiziario andò avanti, ma il Getty tergiversò nella consegna del vaso adducendo che c’erano in corso trattative con il Ministero dei Beni Culturali italiano in merito ad altri reperti, lasciando così intendere che l’attività giudiziaria relativa al vaso di Assteas costituiva in quel momento una interferenza poco gradita.
LA SVOLTA – IL RITORNO IN ITALIA
“Seguì una lunga fase di stallo – racconta Lai – per cui avemmo la sensazione che il vaso non sarebbe mai più ritornato. Eppure già dal solo punto di vista deontologico il museo americano lo avrebbe dovuto immediatamente restituire, a prescindere cioè dalla prescrizione del reato. Ma ciò tardava ad accadere.” Finalmente nel 2001, grazie alla collaborazione delle varie autorità americane coinvolte nella vicenda, vennero acquisite altre prove fornite dal personale del museo e rivelatesi utili a smantellare le false indicazioni date dal Becchina secondo le quali il vaso venduto al Getty proveniva da una fantomatica collezione svizzera. Nel 2004 il Comando dei Carabinieri del TPC ottenne così l’apertura di una procedura di confisca presso la Corte Federale della California e nel settembre 2005 la Corte americana dispose la restituzione del vaso, rimpatriato il giorno 11 novembre di quell’anno, proprio dopo la prima udienza del dibattimento che a Roma vedeva alla sbarra, tra gli altri, Marion True, curatrice delle antichità del Getty Museum. Questo caso – come ebbe modo di dichiarare il magistrato Paolo Giorgio Ferri – “dimostra come più che le singole azioni investigative e giudiziarie, in Italia è stata vincente la creazione di un vero e proprio sistema di dialogo tra le autorità (…); alla politica si sono affiancate attività di diplomazia culturale e giudiziarie, supportate dai tecnici e dalle indagini compiute nel tempo dagli uomini dei Carabinieri. Un vero mosaico di attività a cui hanno dato forma molte persone, ognuna assolvendo al proprio ruolo e alla specifica competenza istituzionale, ma con quella lungimiranza e con l’appropriatezza che vicende complesse e radicate nel tempo richiedevano”.
ASSTEAS SUPERSTAR
Dopo il suo rientro in Italia, per il vaso di Assteas è iniziato un periodo di peregrinazioni che ne hanno attestato lo status di ”star” internazionale dell’archeologia, anche se – ha dichiarato il critico d’arte Luca Nannipieri – il senso più compiuto della sua restituzione all’Italia risiede nella sua ricollocazione nel territorio di provenienza, “in grado di ristabilire – al di là della rilevanza estetica dell’opera – quella rete di relazioni, di contesti, che illuminano il vaso stesso e il luogo in cui è inserito. Dando valore al luogo, al territorio, alla popolazione - ha aggiunto lo studioso -, il vaso di Assteas ne riemerge come un tassello di identità e di storia, che ha più valore in quel luogo, in quel territorio, per quella popolazione, che se fosse esposto anche nel più avanzato e tecnologico dei musei americani. Occorre però che le istituzioni si impegnino a far sentire la presenza di un’opera d’arte come un concreto valore identitario, altrimenti si rischia di avere tante restituzioni di oggetti di cui gli stessi cittadini faticano a comprendere il senso e l’importanza”. Il pubblico dunque non aspetta altro che proposte in grado di stimolare il gusto per la conoscenza e per la scoperta del Bello quale strumento di crescita spirituale e non solo di godimento estetico, proposte su cui in Italia si continua ancora a fare troppo poco. Se infatti, sull’onda del clamore generato dalla restituzione, il vaso di Assteas è stato esposto all’Expo di Milano, al Palazzo del Quirinale e alla sede UNESCO di Parigi, da quando si è riavvicinato ai suoi luoghi di origine – dal Museo Archeologico Nazionale di Paestum, alla Chiesa di S. Francesco a Sant’Agata dei Goti, al Museo Archeologico Nazionale del Sannio Caudino, sede definitiva nella quale è circondato da collezioni di grande valore – questo capolavoro, se si escludono le continue richieste di prestito all’estero, ha visto via via scemare in Italia il grado di interesse che pur era stato a lungo capace di suscitare. Questo accade perchè il patrimonio culturale italiano continua a soffrire di una carenza cronica di promozione, che spesso lo riduce al deplorevole rango di mera tappezzeria di lusso.
IL RATTO D’EUROPA: DALL’INDAGINE AL FUMETTO
La difesa dell’Arte e della Bellezza, così come della Storia che ad esse è legata, anima l’impegno quotidiano del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, un impegno complesso e articolato che però rimane per lo più noto ai soli addetti ai lavori, mentre al grande pubblico giunge soltanto notizia dell’esito delle sue operazioni. È pertanto da salutare con entusiasmo l’iniziativa dei luogotenenti in congedo Roberto Lai e Filippo Tomassi che hanno deciso (il primo con la scrittura, il secondo con l’abilità nel disegno) di raccontare attraverso il popolare linguaggio del fumetto alcuni dei più avventurosi recuperi di reperti archeologici che li hanno visti protagonisti in prima persona. In realtà tali fumetti sono il frutto di un lavoro di squadra che, oltre ai due principali autori e curatori, vede all’opera scenenggiatori, grafici e stampatori, senza trascurare il supporto di alcune importanti realtà associative come l’Associazione Culturale di Storia e Archeologia Sulcitana Arciere, l’Associazione Nazionale Carabinieri e l’Associazione Nomentana di Storia e Archeologia.
Finora sono stati prodotti tre episodi corrispondenti ad altrettante operazioni che hanno riportato in Italia capolavori d’arte antica finiti all’estero a causa del traffico illegale internazionale di reperti. I tre fumetti sono disponibili gratuitamente on line grazie al magazine The Journal of Cultural Heritage Crime che li ha condivisi in rete: il primo è quello dedicato al recupero della Triade Capitolina, gruppo statuario con Giove, Giunone e Minerva del II-III sec. (All’inseguimento della Triade Capitolina), il secondo rievoca il rientro in Italia di un bronzetto dell’Età del Ferro raffigurante un arciere, preziosa espressione della civiltà nuragica dell’isola di Sant’Antioco, in Sardegna (Il ritorno dell’arciere) mentre il terzo (Il Ratto d’Europa) è dedicato appunto al magnifico vaso di Assteas di cui vi abbiamo parlato. Di quest’ultimo fumetto è possibile anche acquistare la versione cartacea (15 euro + spese di spedizione) facendone richiesta all’Associazione Nazionale Carabinieri – Sezione di Roma Trastevere all’indirizzo email trastevere@sezioni-anc.it
“L’idea di queste pubblicazioni – racconta Roberto Lai – è nata dalla volontà di trasmettere ai più giovani il concetto di tutela del patrimonio culturale e per stimolare in loro un avvicinamento a quelle che sono le proprie origini, le proprie radici. A tale fine abbiamo ritenuto che il fumetto, in quanto strumento immediato di comunicazione, potesse essere il linguaggio ideale per far arrivare ai giovani il nostro messaggio. Vorrei aggiungere che la nostra iniziativa non si ferma alla sola pubblicazione dei fumetti, ma include anche conferenze proposte all’interno delle scuole di ogni ordine e grado al fine di divulgare l’importanza della tutela del nostro patrimonio culturale. Del resto – aggiunge Lai – è nelle mani delle giovani generazioni che andremo a riporre la cultura d’Europa, così ricca di diversità; una diversità che potrà essere salvaguardata solo tutelando le singole identità. Il lavoro fatto per sviluppare e divulgare questo racconto a fumetti non sarà dunque stato vano se ogni singolo giovane lettore rifletterà sull’importanza del ritorno di un bene che è stato strappato dal luogo delle origini, vedendo cancellata la propria storia, la propria identità e, dopo un lungo peregrinare, torna dove la storia lo aveva collocato. E ancor meno vano sarebbe se questa stessa rifessione venisse fatta dagli adulti, spesso superficiali e indifferenti verso l’importanza del rispetto e della valorizzazione del nostro immenso patrimonio culturale.”
Bibliografia:
Tsao Cevoli, Storia senza voce, Centro per gli Studi Criminologici, Giuridici e Sociologici, Viterbo, 2020, pp. 229
Roberto Lai, Filippo Tomassi, Il ratto d’Europa. L’indagine che riportò a casa il magnifico vaso di Assteas, Associazione Culturale di Storia e Archeologia Sulcitana Arciere, Viterbo, 2019, pp. 48
P. Watson, C. Todeschini, The Medici Conspiracy: The illicit journey of looted antiquities. From Italy’s tomb raiders to the world’s greatest museums, PublicAffairs, Nuova York, 2006, pp. 448
https://www.famedisud.it/il-vaso-di-assteas-storia-vera-di-un-giallo-internazionale-a-lieto-fine/
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