V - Viaggi extra-terrestri nelle differenti tradizioni
Una questione che sembra essere stata motivo di grande preoccupazione per la maggior parte dei commentatori di Dante riguarda le fonti cui conviene ricollegare la sua concezione della discesa agli Inferi, ed è anche un punto su cui l’incompetenza di quanti hanno studiato tali questioni in maniera tutta «profana» appare più nettamente.
Si tratta infatti di qualcosa che non si può comprendere senza una certa conoscenza delle fasi della vera iniziazione, e che ora tenteremo di spiegare.
Non c’è dubbio che, se Dante sceglie Virgilio come guida nelle prime due parti del suo viaggio, la ragione principale, sulla quale tutti concordano, è il ricordo del VI canto dell’Eneide; bisogna però aggiungere che ciò è dovuto alla presenza, in Virgilio, non di una semplice finzione poetica, ma della prova di un sapere iniziatico incontestabile. Non è senza ragione se la pratica delle sortes virgilianæ era così diffusa durante il Medioevo; e, se si è voluto fare di Virgilio un mago, si trattava solo della deformazione popolare ed essoterica di una verità profonda, sentita, più che espressa razionalmente, da coloro che accostavano la sua opera ai Libri sacri, anche solo per farne un uso divinatorio d’interesse molto relativo.
D’altra parte, non è difficile constatare che lo stesso Virgilio, per quanto ci interessa, ebbe dei predecessori fra i Greci: ricordiamo a questo proposito il viaggio di Ulisse nel paese dei Cimmeri, e la discesa di Orfeo agli Inferi; ma la concordanza che si rileva in tutto ciò non sarà solo una serie di prestiti o di imitazioni successive?
La verità è che ciò di cui si parla è in strettissimo rapporto con i misteri dell’antichità, e che i diversi racconti poetici o leggendari null’altro sono se non le traduzioni di un’unica realtà: il ramo d’oro che Enea, condotto dalla Sibilla, si reca a cogliere per prima cosa nella foresta (quella stessa «selva oscura» dove Dante pone ugualmente l’inizio del suo poema) è il ramo che portavano gli iniziati di Eleusi, e rimanda anche all’acacia della Massoneria moderna, «pegno di resurrezione e d’immortalità».
Ma c’è di più, e anche il cristianesimo ci propone un analogo simbolismo: nella liturgia cattolica la settimana santa, che vedrà la morte di Cristo, la sua discesa agli Inferi e poi la sua resurrezione, ben presto seguita dalla gloriosa ascensione, si apre con la festa delle Palme;[1] il racconto di Dante inizia esattamente il lunedì santo, come per indicare che è stata la ricerca del ramo misterioso a farlo smarrire nella selva oscura dove incontrerà Virgilio; e il suo viaggio attraverso i mondi durerà fino alla domenica di Pasqua, cioè fino al giorno della resurrezione.
Morte e discesa agli Inferi da un lato, resurrezione e ascensione al Cielo dall’altro, sono come due fasi inverse e complementari, la prima delle quali costituisce la preparazione necessaria alla seconda, ed esse sono facilmente rintracciabili anche nella descrizione della «Grande Opera» ermetica;
questo stesso motivo ritorna in tutte le dottrine tradizionali. Ecco dunque che nell’Islam troviamo l’episodio del «viaggio notturno» di Mohammed, che parimenti comprende la discesa alle regioni infernali (isrâ) e l’ascensione ai diversi paradisi o sfere celesti (mirâj); e alcuni rendiconti di questo «viaggio notturno» presentano somiglianza sorprendenti con il poema dantesco, a tal punto che qualcuno ha voluto vedervi una delle fonti principali della sua ispirazione.
Don Miguel Asín Palacios ha mostrato i numerosi rapporti esistenti, nella sostanza e perfino nella forma, fra la Divina Commedia (per non parlare di certi passi della Vita nuova e del Convivio), il Kitâb el-isrâ («Libro del Viaggio notturno») e le Futûhât el-Mekkiyah («Rivelazioni della Mecca») di Mohyiddin ibn Arabi, opere anteriori di circa un’ottantina d’anni, concludendo che le analogie con queste opere sono più numerose di tutte quelle che i commentatori sono riusciti a individuare fra l’opera di Dante e qualunque altra letteratura.[2]
Ecco qualche esempio: «In un adattamento della leggenda musulmana, un lupo e un leone sbarrano la strada al pellegrino, così come la pantera, il leone e la lupa fanno indietreggiare Dante.
È il Cielo che invia Virgilio a Dante, come Gabriele a Mohammed; entrambi, durante il viaggio, soddisfano la curiosità del pellegrino. L’Inferno si annuncia nelle due leggende con segni identici: tumulto violento e confuso, raffiche di fuoco. L’architettura dell’Inferno dantesco è ricalcata su quella dell’Inferno musulmano: un gigantesco imbuto formato da una serie di piani, di gradi o gradinate circolari che scendono l’una dopo l’altra sino al fondo della terra; ciascuna racchiude una categoria di peccatori, le cui colpe e pene si aggravano via via che si scende nei gironi più bassi. Ogni piano è suddiviso in diversi altri, occupati da svariate categorie di peccatori; infine, entrambi gli Inferni sono situati sotto la città di Gerusalemme.
Per purificarsi all’uscita dall’Inferno e poter ascendere al Paradiso, Dante si sottopone a una triplice abluzione. La stessa triplice abluzione purifica le anime nella leggenda musulmana: prima di entrare nel Cielo, esse vengono immerse in successione nelle acque dei tre fiumi che irrigano il giardino di Abramo. L’architettura delle sfere celesti attraversate durante l’ascensione è identica nelle due leggende; nei nove cieli sono disposte, in conformità ai loro meriti, le anime beate che, alla fine, si riuniscono nell’Empireo o sfera ultima.
Come Beatrice si fa da parte davanti a San Bernardo che guiderà Dante nelle ultime tappe, così Gabriele abbandona Mohammed accanto al trono di Dio dove sarà avvolto da una ghirlanda di luce. L’apoteosi finale delle due ascensioni è la stessa:
i viaggiatori, giunti infine alla presenza di Dio, descrivono Dio come una sorgente di luce intensa, circondata da nove cerchi concentrici formati dalle file compatte d’innumerevoli spiriti angelici che emanano raggi di luce;
tra le file che circondano più da vicino la sorgente divina c’è quella dei Cherubini; ogni cerchio circonda quello immediatamente inferiore, e tutti e nove ruotano senza sosta attorno al centro divino. I gironi infernali, i cieli astronomici, i cerchi della rosa mistica, i cori angelici che circondano la sorgente di luce divina, i tre circoli simboleggianti la trinità, il poeta fiorentino li prende parola per parola da Mohyiddin ibn Arabi».[3]
Tali coincidenze, fin nei dettagli più minuti, non possono essere accidentali, e abbiamo più d’un motivo per credere che Dante si sia effettivamente ispirato, per una parte importante della sua opera, agli scritti di Mohyiddin; ma come ha potuto conoscerli? Si considera Brunetto Latini, che aveva soggiornato in Spagna, un possibile intermediario; ma questa ipotesi ci sembra poco soddisfacente.
Mohyiddin era nato a Murcia, da cui il soprannome di E1-Andalûsi, ma non trascorse l’intera vita in Spagna, e morì a Damasco; d’altra parte, i suoi discepoli erano sparsi in tutto il mondo islamico, soprattutto in Siria e in Egitto, ed è poco probabile che le sue opere fossero già a quell’epoca di dominio pubblico, dato che alcune di esse non lo sono mai diventate. In effetti, Mohyiddin fu ben altro che il «poeta mistico» immaginato da Asín Palacios; qui sarà bene dire che, nell’esoterismo islamico, egli viene chiamato Esh-Sheikh el-akbar, cioè il più grande dei maestri spirituali, il Maestro per eccellenza, che la sua dottrina è in essenza puramente metafisica, e che molti dei principali Ordini iniziatici dell’Islam, fra i più elevati e al tempo stesso più segreti, discendono direttamente da lui.
Abbiamo già indicato come nel XIII secolo, al tempo di Mohyiddin, alcune di queste organizzazioni ebbero rapporti con gli Ordini cavallereschi e, secondo noi, è per questo tramite che si spiega la trasmissione di cui abbiamo parlato; se fosse successo altrimenti. se Dante avesse conosciuto Mohyiddin per vie «profane», perché non l’ha mai nominato, come invece nomina i filosofi essoterici dell’Islam, Avicenna e Averroé?[4]
Inoltre, è risaputo che vi furono influenze islamiche alle origini del Rosacrocianesimo, e a queste alludono i supposti viaggi in Oriente di Christian Rosenkreuz. Ma la vera origine del Rosacrocianesimo, come abbiamo già detto, sono proprio gli Ordini di cavalleria, e furono loro a costituire, durante il Medioevo, il vero legame intellettuale fra l’Oriente e l’Occidente.
I critici occidentali moderni, che considerano il «viaggio notturno» di Mohammed come una leggenda più o meno poetica, sostengono che questa leggenda non è specificamente islamica e araba, ma originaria della Persia, perché il racconto di un viaggio analogo si trova in un’opera mazdea, l’Ardâ Vîrâf Nâmeh.[5]
C’è chi pensa che occorra risalire ancora più lontano, fino all’India, dove in effetti s’incontra, tanto nel Brahmanesimo quanto nel Buddhismo, una moltitudine di descrizioni simboliche dei diversi stati di esistenza nella forma di un insieme organizzato gerarchicamente di Cieli e di Inferni;
alcuni arrivano a supporre che Dante abbia potuto subire direttamente l’influenza indiana.[6] In coloro che non vedono in tutto ciò altro che «letteratura», questo genere di considerazioni è comprensibile, benché, anche dal semplice punto di vista storico, sia assai difficile ammettere che Dante abbia potuto conoscere qualcosa dell’India per altra via che quella dell’intermediazione araba. Per noi, invece, queste somiglianze dimostrano soltanto l’unità dottrinale comune a tutte le tradizioni; non c’è da stupirsi se troviamo ovunque l’espressione delle medesime verità, ma appunto, per non stupirsi occorre prima sapere che sono verità, e non invenzioni più o meno arbitrarie.
Là dove appaiono soltanto rassomiglianze generiche, non è il caso di concludere che vi sia stata una comunicazione diretta; questa conclusione si giustifica unicamente quando le stesse idee sono espresse in un’identica forma, ed è il caso di Mohyiddin e di Dante.
È certo che quanto ritroviamo in Dante è in perfetto accordo con le teorie indù sui mondi e i cicli cosmici, senza tuttavia essere rivestito della forma, quella soltanto, che è propriamente indù; e tale accordo esiste per necessità fra tutti coloro che hanno coscienza delle medesime verità, in qualunque modo ne abbiano acquisito la conoscenza.
Scritto da René Guénon.
Note
[1] Il nome latino della festa è Dominica in Palmis; la palma e il ramo sono evidentemente una sola e medesima cosa, e la palma come emblema dei martiri ha ugualmente il significato da noi indicato. Ricordiamo inoltre la denominazione popolare francese di Pâques fleuries, che esprime in modo assai chiaro, benché inconsapevole da parte di coloro che oggi l’adoperano, il rapporto esistente fra il simbolismo di questa festa e la resurrezione.
[2] M. Asín Palacios, La Escatología musulmana en la Divina Comedia, Madrid, 1919. Cfr. E. Blochet: Les Sources orientales de la «Divine Comédie», Paris, 1901.
[3] A. Cabaton, «La Divine Comédie» et l’Islam, in «Revue de l’Histoire des religions», 1920. Questo articolo contiene un riassunto del lavoro di M. Asín Palacios.
[4] Inferno, IV, 143-144.
[5] E. Blochet: Études sur l’Histoire religieuse de l’Islam, in «Revue de l’Histoire des religions», 1809. Ne esiste una traduzione francese nel Livre d’Ardâ Virâf a cura di A. Barthélemy, pubblicato a Parigi nel 1887.
[6] A. De Guibernatis, Dante e l’India, in «Giornale della Società asiatica italiana», III, 1889, pp. 3-19; Le type indien de Lucifer chez Dante, in Actes du X Congrès des Orientalistes. Cabaton, nell’articolo sopra citato, segnala che «Ozanam aveva già notato in Dante una duplice influenza islamica e indiana» (Essai sur la philosophie de Dante, Paris, 1839, pp. 198 e sgg.); tuttavia, malgrado la reputazione di cui gode, l’opera di Ozanam ci sembra estremamente superficiale.
https://scienzasacra.blogspot.com/2014/05/rene-guenon-lesoterismo-di-dante-i.html#more
Nessun commento:
Posta un commento