IV - Dante e il Rosacrocianesimo
Lo stesso rimprovero d’inadeguatezza che abbiamo mosso a Rossetti e Aroux può essere rivolto anche a Éliphas Lévi, il quale, pur affermando l’esistenza di un rapporto con gli antichi misteri, vi ha scorto soprattutto un’applicazione politica, o politico-religiosa, che a nostro parere ha un’importanza secondaria e a torto presuppone che le organizzazioni iniziatiche siano direttamente impegnate nelle lotte esterne.
Ecco infatti ciò che dice questo autore nella sua Histoire de la Magie:
«I commentari e gli studi sull’opera di Dante si sono moltiplicati, ma nessuno, per quanto ne sappiamo, ne ha segnalato il vero carattere. L’opera del grande Ghibellino è una dichiarazione di guerra al Papato attraverso l’audace rivelazione dei misteri.
L’epopea di Dante è giovannita[1] e gnostica; è un’ardita applicazione dei simboli e dei numeri della Cabbala ai dogmi cristiani, e una segreta negazione di tutto ciò che c’è di assoluto in questi dogmi.
Il suo viaggio per i mondi sovrannaturali si svolge come le iniziazioni ai misteri di Eleusi e di Tebe.
È Virgilio a guidarlo e proteggerlo nei gironi del nuovo Tartaro, quasi che Virgilio, il tenero e malinconico profeta dei destini del figlio di Pollione, fosse agli occhi del poeta fiorentino il padre illegittimo, ma autentico, dell’epopea cristiana.
Grazie al genio pagano di Virgilio, Dante sfugge all’abisso sulla cui soglia aveva letto una sentenza di disperazione; gli sfugge mettendo la testa al posto dei piedi e i piedi al posto della testa, vale a dire prendendo in contropiede il dogma, e allora risale verso la luce servendosi del demonio stesso come di una scala mostruosa; sfugge al terrore a forza di terrore, all’orrendo a forza di orrore.
L’Inferno è un vicolo cieco solo per quelli che non sanno tornare indietro; egli prende il diavolo contropelo, se mi si concede questa espressione familiare, e si emancipa grazie alla sua audacia. Il protestantesimo è già superato, e il poeta dei nemici di Roma ha già divinato il Faust che sale al cielo sulla testa dello sconfitto Mefistofele».[2]
In realtà, la volontà di «rivelare i misteri», anche supponendo che sia cosa possibile (e di fatto non lo è, perché non c’è vero mistero se non l’inesprimibile), e la risoluzione di «prendere in contropiede il dogma», o di rovesciare consapevolmente il senso e il valore dei simboli, non sarebbero i segni di un’iniziazione molto alta.
Fortunatamente, per quanto ci riguarda, non vediamo niente di simile in Dante, il cui essoterismo, al contrario, si nasconde dietro un velo piuttosto difficile da penetrare, e al contempo poggia su basi strettamente tradizionali; fare di lui un precursore del protestantesimo, e magari perfino della Rivoluzione, semplicemente perché fu avverso al Papato sul terreno della politica, significa fraintendere completamente il suo pensiero e non comprendere affatto lo spirito del suo tempo.
Ma c’è un’altra cosa che ci pare difficilmente sostenibile: l’opinione che vede in Dante un «cabbalista» nel senso proprio del termine; a questo proposito siamo tanto più inclini a mostrarci diffidenti in quanto sappiamo bene come taluni nostri contemporanei nutrano facilmente illusioni a tale riguardo, credendo di trovare della Cabbala ovunque vi sia una qualche forma di esoterismo.
Non abbiamo forse sentito uno scrittore massone affermare in tono grave che Cabbala e Cavalleria sono un’unica cosa e, a dispetto delle più elementari nozioni linguistiche, che persino i due nomi hanno un’origine comune?[3]
Di fronte a tesi così inverosimili, è comprensibile la necessità di mostrarsi circospetti, di non accontentarsi di qualche vaga somiglianza per fare questo o quel personaggio un cabbalista; inoltre la Cabbala è essenzialmente la tradizione ebraica,[4] e non abbiamo prove che Dante abbia subito direttamente un’influenza ebraica.[5]
Ad aver dato vita a un’opinione del genere è soltanto il fatto che egli ha utilizzato la scienza dei numeri; ma, se è vero che questa scienza è presente nella Cabbala ebraica, dove occupa un ruolo importantissimo, la si rintraccia anche altrove; si vorrà forse sostenere, sulla base dello stesso argomento, che Pitagora era un cabbalista?[6]
Come abbiamo già detto, è al Pitagorismo e non alla Cabbala che, sotto questo profilo, si potrebbe ricollegare Dante; il quale, con ogni probabilità, dell’ebraismo conobbe soprattutto ciò che il cristianesimo ha conservato nella propria dottrina.
«Notiamo inoltre» continua Éliphas Lévi «che l’Inferno di Dante non è che un Purgatorio negativo. Voglio spiegarmi: il suo Purgatorio sembra essersi formato nel suo Inferno come in uno stampo, è il coperchio e per così dire il tappo dell’abisso, e si capisce come il Titano fiorentino, nella scalata al Paradiso, vorrebbe gettare con una pedata il Purgatorio nell’Inferno».
In un certo senso questo è vero, perché il monte del Purgatorio si è formato sull’emisfero australe con i materiali eiettati dal dall’interno della terra quando la caduta di Lucifero vi scavò l’abisso; tuttavia l’Inferno ha nove cerchi, che sono come un riflesso inverso dei nove cieli, mentre il Purgatorio ha solo sette suddivisioni; la simmetria non è dunque esatta sotto ogni rispetto.
«Il Suo Cielo si compone di una serie di cerchi cabbalistici divisi da una croce, come il pentacolo di Ezechiele; al centro di questa croce fiorisce una rosa, e vediamo apparire per la prima volta, esposto in pubblico e spiegato in modo quasi categorico, il simbolo dei Rosa-Croce». D’altronde, intorno alla stessa epoca, lo stesso simbolo appariva anche, benché in modo forse meno chiaro, in un’altra celebre opera poetica: il Roman de la Rose.
Secondo Éliphas Lévi «il Roman de la Rose e la Divina Commedia sono le due forme opposte (ma sarebbe più giusto dire complementari) di una stessa opera: l’iniziazione all’indipendenza dello spirito, la satira di tutte le istituzioni contemporanee, e la formulazione allegorica dei grandi segreti della Società dei Rosa-Croce», la quale, a dire il vero, non portava ancora questo nome e, per di più, ribadiamo, non fu mai una «società» costituita con tutte le forme esteriori che questa denominazione comporta (salvo qualche ramo tardivo e più o meno deviato).
Inoltre, l’«indipendenza dello spirito » o, per meglio dire, l’indipendenza intellettuale, non era, nel Medioevo, il fatto straordinario che di solito immaginano i moderni, e i monaci stessi non si privavano di un pensiero critico molto libero, del quale si possono trovare le manifestazioni perfino nelle sculture delle cattedrali; tutto questo non ha nulla di specificamente esoterico, ma, nelle opere in questione, vi è qualcosa di ben più profondo.
«Queste importanti manifestazioni dell’occultismo» prosegue Éliphas Lévi «coincidono con l’epoca della caduta dei Templari, poiché Jean de Meung, ovvero Clopinel, coevo al tardo Dante, fioriva nei suoi anni migliori alla corte di Filippo il Bello. È un libro profondo scritto in forma leggera,[7] una rivelazione dei misteri dell’occultismo di sapienza pari a quella di Apuleio. La rosa di Flamel, quella di Jean de Meung e quella di Dante sono germogli sullo stesso rosaio».[8]
Abbiamo una sola riserva su queste ultime righe: la parola «occultismo», che è stata inventata dallo stesso Éliphas Lévi, non è per niente adatta a designare quanto esisteva prima di esso, soprattutto se si pensa a che cosa è diventato l’occultismo contemporaneo, che, facendosi passare per una restaurazione dell’esoterismo, è in realtà una sua grossolana contraffazione, poiché i suoi fautori non sono mai stati in possesso dei veri principi né di alcuna seria iniziazione.
Éliphas Lévi sarebbe senza dubbio il primo a disconoscere i suoi presunti successori, ai quali era di certo assai superiore intellettualmente, benché non sia davvero così profondo come vuole apparire, e abbia il torto di considerare ogni cosa attraverso la mentalità di un rivoluzionario del 1848.
Se ci siamo dilungati nella discussione delle sue idee, è perché sappiamo quanto grande sia stato il suo influsso, anche su coloro che non l’hanno affatto compreso, e riteniamo giusto fissare i limiti entro i quali è possibile riconoscere le sue competenze: il suo difetto principale, che è quello della sua epoca, è di mettere in primo piano le preoccupazioni sociali e di mescolarle indistintamente con tutto quanto; al tempo di Dante si sapeva di sicuro meglio attribuire a ciascuna cosa il posto che di norma le compete nella gerarchia universale.
Di interesse particolare per la storia delle dottrine esoteriche è la constatazione che varie e importanti manifestazioni di queste dottrine coincidono, all’incirca negli stessi anni, con l’annientamento dell’Ordine del Tempio; vi è una relazione incontestabile, anche se difficile da determinare con esattezza, fra i diversi eventi. Nei primi anni del XIV secolo, e di sicuro già nel corso del secolo precedente, esisteva dunque, in Francia come in Italia, una tradizione segreta («occulta», se vogliamo, ma non «occultista»), la stessa che prenderà più tardi il nome di tradizione rosacrociana.
La denominazione di Fraternitas Rosæ-Crucis apparve per la prima volta nel 1374, o anche, secondo alcuni (in particolare Michael Maier), nel 1413; e la leggenda di Christian Rosenkreuz, il supposto fondatore, il cui nome e la cui vita sono puramente simbolici, forse si costituì nella sua interezza solo nel XVI secolo; ma, come abbiamo visto, il simbolo stesso della Rosa-Croce è di molto anteriore.
Questa dottrina esoterica, quale che sia la designazione specifica che si vorrà darle fino alla comparsa del Rosacrocianesimo in senso proprio (sempre che si consideri necessario darle un nome), presenta delle caratteristiche che ci permettono di inserirla in quello che viene comunemente chiamato ermetismo.
La storia di questa tradizione ermetica è legata in profondità a quella degli Ordini cavallereschi e, nel periodo di cui ci stiamo occupando, era custodita da alcune organizzazioni iniziatiche quali la Fede Santa e i Fedeli d’Amore, come pure da quella Massenia del Santo Graal della quale lo storico Henri Martin,[9] proprio con riferimento ai romanzi cavallereschi, che rimangono una delle grandi manifestazioni letterarie dell’esoterismo medioevale, parla in questi termini:
«Nel Titurel la leggenda del Graal raggiunge la sua ultima e splendida trasfigurazione, sotto l’influsso di idee che Wolfram[10] sembrerebbe avere attinto in Francia, in particolare dai Templari della Francia meridionale. Non è più nell’isola di Bretagna, ma in Gallia, al confine con la Spagna, che viene custodito il Graal. Un eroe di nome Titurel fonda un tempio per depositarvi il sacro Calice, e a dirigere la costruzione di questo edificio misterioso è il profeta Merlino, iniziato da Giuseppe d’Arimatea in persona al piano del Tempio per eccellenza, il Tempio di Salomone.[11]
La Cavalleria del Graal diventa allora la Massenia, una sorta di Massoneria ascetica, i cui membri si definiscono Tempisti, nella quale si nota l’intento di riunire in un unico centro, rappresentato da questo Tempio ideale, l’Ordine dei Templari e le numerose confraternite di muratori intente a rinnovare l’architettura del Medioevo. Tutto questo ci lascia intravedere degli scorci di quella che si potrebbe definire storia sotterranea dell’epoca, ben più complessa di quanto si creda.
È davvero curioso, e assolutamente fuori di dubbio, che la Massoneria moderna risalga, di gradino in gradino, alla Massenia del Santo Graal».[12]
Sarebbe forse imprudente adottare in maniera esclusiva l’opinione espressa nell’ultima frase, perché i collegamenti della Massoneria moderna con le organizzazioni anteriori sono anch’essi estremamente complicati; nondimeno è utile tenerne conto, poiché vi si può almeno scorgere l’indicazione di una delle origini reali della Massoneria.
Tutto ciò può essere di aiuto per comprendere in certa misura le modalità di trasmissione delle dottrine esoteriche nel corso del Medioevo, come pure l’oscura filiazione delle organizzazioni iniziatiche in quello stesso periodo, durante il quale erano davvero segrete, nella più stretta accezione del termine.
Scritto da René Guénon.
Note
[1] San Giovanni è spesso considerato il capo della Chiesa interiore e, secondo certe concezioni di cui troviamo qui un indizio, lo si vuole opporre per questo motivo a San Pietro, capo della Chiesa esteriore; la verità, tuttavia, è che la loro autorità non si applica allo stesso ambito.
[2] Questo passaggio di Éliphas Lévi, come molti altri (estratti principalmente da Dogme et Rituel de la Haute Magie, Paris, 1856), è stato riportato alla lettera, senza indicazione della fonte, da Albert Pike nel suo Morals. and Dogma of Freemasonry, Charleston, 1871, p. 822; del resto, il titolo stesso di quest’opera è un’imitazione palese di quello di Éliphas Lévi.
[3] Ch.-M. Limousin, La Kabbale littérale occidentale, Paris, s.d.
[4] La parola stessa significa in ebraico «tradizione» e, se non si scrive in questa lingua, non vi è alcuna ragione di impiegarla per designare indistintamente qualsiasi tradizione.
[5] Ricordiamo tuttavia che, in base a testimonianze dell’epoca, Dante intrattenne rapporti regolari con un Ebreo molto dotto, anch’egli poeta, Immanuel ben Salomon ben Jekuthiel (1270-1330); ciò nonostante, non troviamo alcuna traccia di elementi specificatamente ebraici nella Divina Commedia, che invece diede ispirazione a Immanuel per una delle sue opere, malgrado l’opinione opposta di Israel Zangwill, che il confronto delle date rende del tutto insostenibile.
[6] Opinione effettivamente sostenuta da Reuchlin.
[7] Si potrebbe dire la stessa cosa, nel XVI secolo, delle opere di Rabelais, le quali racchiudono anche un significato esoterico che sarebbe interessante studiare a fondo.
[8] Éliphas Lévi, Histoire de la Magie, 1860, pp. 359-360. È importante notare, a questo proposito, che esiste un adattamento italiano del Roman de la Rose, intitolato Il Fiore, il cui autore, «Ser Durante Fiorentino», non sarebbe altri, pare, che Dante stesso; il suo vero nome era in effetti Durante, del quale Dante è la forma abbreviata.
[9] Histoire de France, Paris, 1836, tomo III, pp. 398-399.
[10] Si tratta del Templare svevo Wolfram von Eschenbach, autore di Parzival e imitatore del benedettino satirico Guyot de Provins, che peraltro egli chiama con il nome curiosamente deformato di «Kyot de Provence».
[11] Qui Henri Martin aggiunge in nota: «Parsifal finì con il trasferire il Graal e riedificare il tempio in India, ed è il Prete Gianni, fantasmagorico capo di un’immaginaria cristianità orientale, l’erede della custodia del santo Calice».
[12] Stiamo toccando un punto importantissimo che, trattato diffusamente, ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema: vi è una relazione molto stretta fra il simbolismo del Graal e il «centro comune» cui allude Henri Martin, il quale peraltro non sembra sospettarne la realtà profonda, così come, nello stesso ordine di idee, non capisce la simbologia del Prete Gianni e del suo regno misterioso.
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