La scelta dell'accordo - Battaglia delle Forche Caudine 321 a.C
Frattanto, nell'accampamento romano, falliti parecchi tentativi di fare breccia nell'accerchiamento, e mancando ormai ogni cosa, nella morsa degli eventi si decise di inviare ambasciatori a chiedere una pace a parità di condizioni:
se non l'avessero ottenuta, avrebbero sfidato il nemico in battaglia. Alla delegazione Ponzio replicò che la guerra era ormai stata decisa, e siccome neppure da sconfitti e da prigionieri erano in grado di ammettere la propria sorte, li avrebbe fatti passare sotto il giogo privi di armi e con una sola veste per ciascuno.
Il resto delle condizioni sarebbero state eque per vincitori e vinti: se i Romani abbandonavano il territorio sannita e ritiravano le colonie fondate, allora Romani e Sanniti in futuro sarebbero vissuti attenendosi alle loro leggi in base a un patto di alleanza alla pari. Erano queste le condizioni alle quali egli era pronto a scendere a patti coi consoli.
Se qualcuna di queste clausole non era di loro gradimento, allora vietava agli ambasciatori di ripresentarsi al suo cospetto. Quando venne riferito l'esito dell'ambasceria, il lamento levatosi immediatamente da tutto l'esercito fu così profondo e gli animi vennero invasi da un tale sconforto, che il dolore non sarebbe stato più grande se fosse giunta la notizia che tutti erano destinati a morire in quello stesso luogo.
Restarono a lungo in silenzio, e i consoli non riuscivano ad aprire bocca né per difendere un accordo così infamante, né per respingere un patto tanto necessario, quando Lucio Lentulo, che tra gli ambasciatori inviati era allora il più autorevole per valore e per cariche ricoperte, disse:
"Ricordo, o consoli, di aver spesso sentito mio padre raccontare di essere stato il solo, nel senato sul Campidoglio, a sconsigliare di riscattare Roma dai Galli pagandola a peso d'oro, perché i Romani non erano stati circondati né con una trincea né con un fossato da quel nemico quanto mai indolente e poco portato ai lavori di fortificazione, ed erano in grado di tentare una sortita, pur rischiando moltissimo, ma senza andare incontro a un disastro sicuro.
Campidoglio
E se, come quelli erano stati in grado di lanciarsi dal Campidoglio armati contro il nemico, nel modo spesso utilizzato dagli assediati per tentare una sortita contro gli assedianti, venisse anche a noi concessa l'opportunità di combattere (in posizione favorevole o meno), certo non mi mancherebbe lo spirito di mio padre nel guidarvi.
Morire per la patria, lo ammetto, è cosa gloriosa, e sono pronto a offrire la mia vita per il popolo e per l'esercito romano o a gettarmi nel mezzo dei nemici. Ma è qui che vedo la patria, qui tutto quel che resta delle legioni romane, le quali, a meno che vogliano correre incontro alla morte per difendere se stesse, che cosa possono salvare con il loro sacrificio?
"Le case della città", dirà qualcuno, "le mura e la gente rimasta a Roma".
Ma, per Ercole, è proprio se questo esercito verrà annientato che tutto ciò andrà perduto e non salvato!
Chi, infatti, potrà difenderlo? Forse la massa imbelle e senz'armi? "Esattamente come le difese, per Ercole, dagli assalti dei Galli". Ma potrà forse invocare l'arrivo da Veio di un esercito con Camillo alla testa?
Le nostre speranze e le nostre risorse le abbiamo tutte qui: se le salviamo, salviamo la patria, se invece le consegniamo alla morte, abbandoniamo la patria al suo destino.
"La resa è però cosa disonorevole e infamante". Ma proprio questo è vero amor di patria: salvarla, qualora ve ne sia bisogno, a prezzo tanto del disonore quanto della morte. Vediamo quindi di subire questo marchio di infamia, per quanto indelebile esso possa essere, e pieghiamoci alla fatalità, che neppure gli dei possono superare.
Andate, o consoli, e riscattate con le armi la città che i vostri antenati hanno riscattato con l'oro".
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro IX
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