Gruppo: Sköll
Album: Antologia elettronica
Brano: Carnera
Anno: 2016
Casa discografica: RTP Perimetros
Gruppo: Sköll
Album: Antologia elettronica
Brano: Carnera
Anno: 2016
Casa discografica: RTP Perimetros
La Maratona Mentana del 1993 per l'Elezione dei sindaci dopo i ballottaggi. Il Movimento Sociale Italiano vinse politicamente e praticamente in molte città, pur perdendo di un soffio Napoli e Roma. L'MSI in quel momento storico era l'Alternativa al Sistema che, con tutti i suoi difetti e con i tanti pregi, riuscì a coronare un sogno, canalizzando il malcontento generale sulla Fiamma Tricolore. Senza, però, perdere il contatto con la Base e con la Storia.
Questo è un Paese che non sarà una grande potenza politica, che non sarà una grande potenza militare, forse questa è una benedizione di Dio, ma che è un Paese di grande cultura, di grande storia, è un Paese di immense energie morali, civili, religiose e materiali. Si tratta di saperle mettere assieme e si tratta di fondare delle istituzioni che facciano sì che lo sforzo di ognuno vada a vantaggio di tutti. Che Dio protegga l’Italia, viva l’Italia, viva la Repubblica".
L'ultima Picconata dell'ultimo Presidente della Prima Repubblica. Francesco Cossiga abbandona la carica, polemicamente, poco prima della fine del proprio mandato. Anticipò di un soffio l'uragano abilmente pilotato dall'alto, conosciuto come Tangentopoli, capace di spazzare via solo una parte della classe politica italiana. Una potatura di rami secchi da dare in pasto alle masse inermi. Una guerra tra poteri transnazionali, nascosti dietro le firme dell'Armistizio di Cassibile.
In realtà Mani Pulite venne architettata ad arte per colpire una frangia sacrificale del sistema, lasciando impuniti tanti altri mascalzoni ed il sistema (marcio) stesso.
Quel 25 aprile vide Napoli Capitale dell'Italia onesta, che però non cantava Oo-ne-stà-Oo-ne-stà oppure Bell* ciao nelle piazze. No, care lettrici e cari lettori. Era il Boia Chi Molla l'eco che rimbombava tra i vicoli ed i quartieri di una metropoli stanca, simbolo del Sud dimenticato, ma pronto a sorridere. La base militante delle Federazioni campane era presente e compatta, soprattutto in quella data dai mille significati. Il Movimento Sociale Italiano era l'unica colonna nazionalpopolare in un frangente politico difficile, ma cavalcato con stile dalla Fiamma Tricolore del dopo Almirante. L'MSI era visto come unica opposizione alla Partitocrazia, l'ultimo grido di giustizia Nazionale, premiato con percentuali elettorali importanti.
CHI SI RICORDA DEL 25 APRILE?
La Repubblica, giornale nato il 14 gennaio 1976, come progetto politico e non come semplice organo di informazione, fu la voce, insieme a L'Espresso, RaiTre, Cuore, Samarcanda e ai Chiambretti vari, della sinistra post-comunista, a lutto per l'incredibile crollo dell'Urss nei primissimi anni Novanta. Il quotidiano di Eugenio Scalfari vedeva rinascere e divampare un'incontenibile rabbia missina dopo lo spappolamento, parziale, della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista Italiano, senza dimenticare il resto del Pentapartito, ossia Partito Repubblicano Italiano, Partito Social Democratico e Partito Liberale, quest'ultimo defilatosi dall'alleanza partitica, famosa per la stabile instabilità dei tanti, troppi politicanti di mestiere, spesso lustrascarpe del padrone di turno, italiota, straniero o mezzo e mezzo che sia.
Ha ancora un senso la festa della Liberazione? Fino a qualche anno fa questa sarebbe sembrata una domanda provocatoria. Oggi l' Italia nata dalla Resistenza deve fare i conti con il tentativo ripetuto di annullare il significato storico e politico di quella lotta - frignava La Repubblica il 26.04.92.
«Da destra si traccia un insidioso parallelo tra antifascismo e comunismo: caduto quest'ultimo - è il ragionamento - non avrebbe più senso neppure il primo. E' davvero questo il sentire comune della nazione, è davvero ridotta a una serie di rituali la festa fondamentale della Repubblica italiana? Questo è quello che si tenta di sostenere da destra».
LA CONTROFESTA
Lo Schiaffo 321 ha recuperato la registrazione audio su Radio Radicale di quel famoso comizio, il primo passo emblematico di una nuova stagione politica. "MSI: comizio in occasione dell'Anniversario del 25 Aprile", venne registrato a Napoli sabato 25 aprile 1992 ed è riportato di seguito diviso in due parti. All'evento, organizzato dal Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale, parteciparono anche i Caudini dal Cuore Nero appoggiati dagli irriducibili amanti del Bibigass Tricolore.
Sono intervenuti i Camerati:
Massimo Abbatangelo (MSI), La Russa (MSI), Antonio Parlato (MSI), Francesco Servello (MSI), Alfredo Pazzaglia (MSI), Francesco Pontone (MSI), Giuseppe Tatarella (MSI), Amedeo La Boccetta (MSI), Cesco Baghini (MSI) e Gianfranco Fini (MSI).
Ad Avellino si è consumato un delitto talmente efferato e cruento da lasciare tutti senza parole. Una tragedia assurda che fa registrare un morto e due arresti, ma in realtà è e sarà l'intera famiglia delle vittime a soffrire, distrutta senza un perché e addirittura salva per miracolo, visto che secondo le prime indagini erano da eliminare anche la madre e la sorella. Una strage per coronare un sogno d'amore. Uno scenario crudo e sanguinario che ha portato all'assassino di un padre, accoltellato e sventrato sul divano di casa, almeno in base alle prime ricostruzioni.
Proprio oggi, casualmente, Il Corriere della Sera aveva rispolverato la storia di Doretta Graneris, la donna che a diciotto anni sterminò la sua famiglia insieme al suo fidanzato. Nel 1975 la coppia assassina tolse la vita alla madre, al padre, ai nonni, al fratellino e nemmeno il cane venne risparmiato. Lo storico giornale milanese l'ha rintracciata dopo lunghi e tenebrosi anni di silenzio e carcere.
Doretta ha 64 anni e fa l’impiegata a Torino ed oggi ha fatto un tuffo nel passato a causa della tragedia di Avellino.
Tutta Italia si interroga sulla società di oggi, ma la concomitanza dell'evento odierno con quello del 1975 è ancora più agghiacciante per i parallelismi e le dinamiche. Fortunatamente questa volta il piano è saltato e l'assassino fuggito dopo il primo ferito, morto poco dopo l'arrivo in ospedale.
Riportiamo la ricostruzione ufficiale lanciata in tutta la Nazione dell'Agenzia Giornalistica Italia:
AGI- Da mesi progettava di far fuori tutta la famiglia ma il piano non è riuscito e a fare le spese del diabolico disegno omicida è stato solo il padre, Aldo Gioia, 53 anni di Avellino. Elena voleva liberarsi di tutti quelli che si opponevano alla sua storia con Giovanni: ne parlava spesso con quel ragazzo più grande di lei di cinque anni, che aveva già avuto a che fare con la giustizia. Implicato in un piccolo giro di spaccio, violento al punto da rimediare già qualche denuncia per aggressione e lesioni, l'ultima nel 2019, a giugno, quando per il corso Vittorio Emanuele di Avellino minaccia proprio il padre della sua ragazza con una sciabola.
Nessuna conseguenza fisica, ma quell'episodio segna una ferita profonda nella famiglia di Aldo Gioia, 53 anni di Avellino, dipendente della Fca di Pratola Serra, sposato con Liliana Ferraiolo, di 50 anni, e con due figlie: Elena 18 anni, la ribelle di casa, ed Emilia, 23 anni, studentessa, più vicina ai genitori. Tutti fanno muro contro quella relazione.
Giovanni Limata non ha una buona nomea, ma al progetto di sterminare la famiglia di lei si oppone. Non vuole arrivare a tanto.
E' convinto che basti minacciare il padre di lei, per ottenere un po' più di libertà. La storia tra i due comincia due anni fa e viene subito scoperta dai genitori di Elena. Lei, all'epoca 16enne, non sopporta i divieti dei genitori e gli scontri in famiglia si fanno sempre più accesi. La madre cerca di mediare, così come la sorella. Il padre è il più fermo di tutti. Ma dopo l'episodio della sciabola puntata al padre, nessuno in famiglia è più disposto a spendere una parola per quel giovane, cui Elena sembra sempre più legata.
Alcuni mesi fa la ragazzina comincia a parlare di soluzioni radicali. Lui cerca di dissuaderla, lei riesce a convincerlo. Ha un piano perfetto: aspettare il momento in cui il padre di sera, dopo cena, si distende sul divano con la tv accesa. Di solito prende sempre sonno. A quel punto lei avrebbe avvisato il fidanzato, gli avrebbe aperto la porta e lo avrebbe fatto entrare.
La strage e poi la fuga insieme
Lui avrebbe ucciso tutti e insieme sarebbero poi scappati per sempre. Ma niente va come hanno programmato i due fidanzati. Giovanni non riesce con un grosso coltello a finire il suocero con un colpo solo. Deve sferrargliene sette, ma la madre e la sorella di Elena che erano nelle loro stanze ieri sera si accorgono di quanto sta accadendo. Elena è lì mentre Giovanni colpisce suo padre e comincia a urlare a dire che è una rapina. La madre avvisa il 113 e il 118. L'appartamento al quinto piano di un palazzo di corso Vittorio Emanuele viene invaso dalla polizia e dai soccorritori del 118.
Giovanni Limata nel frattempo è scappato ed Elena è lì a dire agli investigatori che si è trattato di una rapina. Fin qui il racconto agli investigatori di Giovanni Limata, raggiunto nel corso della notte dagli agenti della squadra mobile della questura di Avellino a Cervinara, in casa dei genitori, in via dei Monti.
Il giovane ha cercato prima di negare, ma il coltello è stato trovato e lì ci sono le sue impronte, così come la stanza, il corridoio dell'appartamento e l'androne del palazzo sono pieni di sue tracce. Schiacciato dal peso delle contestazioni, Giovanni è crollato e ha ammesso tutto. Ha ucciso lui Aldo Gioia.
La vittima agonizzante dopo le coltellate
Lo ha lasciato agonizzante e si è spaventato quando le due donne si sono messe a urlare. Non ce l'ha fatta a portare avanti il piano costruito con Elena ed è fuggito. Ma ha addossato alla sua ragazza tutte le responsabilità. Avrebbe progettato tutto lei e lo avrebbe convinto che quella era l'unica soluzione per vivere la loro storia. Quel che è successo dopo la fuga lo ha raccontato poi Elena Gioia. Anche la 18enne è crollata. Ha cercato di sostenere la versione della rapina finita male, ma non ha retto alle domande pressanti degli investigatori. E non è servito neppure quell'aiuto confuso che la madre e la sorella pure hanno cercato di offrirle sulle prima.
Liliana ed Emilia erano sconvolte, e subito dopo la fuga di Giovanni hanno taciuto, o detto solo poche parole per sostenere la versione di Elena. Ma poi è arrivata la notizia che Aldo, uscito in barella dalla casa di famiglia, è morto poco dopo l'arrivo in ospedale.
Le due donne non coprono più la ragazza e gli agenti trovano sul cellulare di Elena una chat inequivocabile tra la 18enne e il fidanzato. A quel punto la madre e la sorella cominciano a raccontare cosa sia realmente accaduto in quell'appartamento dalle 22,45 in poi.
Elena Gioia è accusata di omicidio premeditato pluriaggravato, Giovanni di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione.
Sono in stato di fermo ed entro domani subiranno l'interrogatorio del gip del tribunale di Avellino per la convalida.
Si trovano nel carcere di Avellino dalla notte scorsa. Per lunedì è previsto invece l'affidamento dell'incarico al medico legale per l'autopsia su Aldo Gioia.
Per dire la Vostra, contattateci all'indirizzo di posta elettronica caudiumpatrianostra@gmail.com oppure tramite Twitter @SchiaffoLo
Gruppo: Civico 88
Brano: Siamo qui per voi
Anno: 2007
Video di promozione storica culturale e paesaggistica di Cervinara e del Partenio con le immagini vere dei volti di soldati piemontesi e briganti del territorio del Partenio o nativi di Cervinara.
Il brano "A fest ro Brigant" musiche e parole è scritto da Francesco Viola-
Le foto all'interno del video sono di:
Brigante Carmine Palumbo banda Felice Taddeo
Capo Brigante alias Felice Taddeo (vero nome Domenico Antonio Taddeo)
Briganti Nicola D'Amato, Alfonso Luciano, Michele Cillo
Brigante Mutascio Pietro
Capo Brigante Alessandro Pace compagno di Giocondina Marino di Cervinara
Michele Marino banda Pace
Silvestri Magnotta banda Pace
Moscatiello Luigi Banda Pace
Carolina Casale di Cervinara, compagna di Michele Lippiello banda Pace
Banda Cipriano La Gala seduto con il fratello Giona, Pasquale D'avanzo e Domenico Papa (prima banda del Partenio anno 1861)
“Le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune”.
Tommaso Sankara
Artista: Francesco Mancinelli
Brano: Gilles
Anno: 1986
Gramsci e i suoi fratelli: tre storie tormentate
Antonio Gramsci aveva tre fratelli e tre sorelle. I suoi fratelli, per ragioni diverse, furono per lui un tormento. Con due di loro esercitò appieno il familismo meridionale, si occupò di loro. Il terzo no, però fu in camicia nera. Ma andiamo con ordine, prendendo lo spunto dalla nuova edizione critica delle sue Lettere dal carcere, arricchite di tredici lettere inedite, uscite in questi giorni da Einaudi a cura di Francesco Giasi.
Partiamo dal fratello maggiore, Gennaro, detto Nannaro, che gli procurò non pochi pensieri; fu l’unico tra i suoi fratelli che seguì le sue idee politiche, fu segretario di sezione e cassiere di una Camera del Lavoro e a Torino fu collocato da suo fratello come responsabile amministrativo del giornale comunista diretto da Antonio, Ordine nuovo. Fu protagonista di una storia che rischiò di coinvolgere anche Antonio; lui racconta in queste nuove lettere ai famigliari quando fu accusato di essere un “ingravidatore fuggiasco” e dipinto “come un mascalzone vizioso, cocainomane, con le dita cariche di anelli”. Ma il responsabile del misfatto era in realtà suo fratello, il lupo Nannaro, che aveva messo incinta una ragazza. Antonio lo convinse a riconoscere sua figlia Mea.
Antonio dovette occuparsi pure di cercare un lavoro all’altro suo fratello più piccolo, Carlo. Ma questa volta, curiosamente, si rivolse al federale fascista di Cagliari, Paolo Pili, che era parlamentare. Carlo, ufficiale nella Grande guerra, era di idee sardiste. Lo stesso Pili raccontò l’episodio che risaliva al 1924 in un’intervista ripresa nel n. 79 della rivista Storia in rete: “Nino era un tipo terribile, eravamo in un periodo in cui era sempre ingrugnito, non parlava mai con nessuno, neppure con il suo gruppo di comunisti. Un giorno, nel corridoio dei passi perduti (a Montecitorio, ndc), mi tirò per la giacchetta, gli chiesi: ‘Come mai ti avvicini a una bestia immonda come me?’, mi rispose di non dire stupidaggini e ci sedemmo. Ricordo che in quel momento Mussolini e Federzoni uscirono insieme dall’aula e, vedendomi con Gramsci, fecero un viso così curioso che non posso dimenticarmelo, specialmente Mussolini, un viso divertito insomma.
Gramsci mi ricordò che le sorelle si erano sposate ricamando per la gente e che Carlo, pur volendo lavorare, non riusciva a trovare alcun posto, mi pregò di trovargliene uno qualsiasi”. Cosa si arriva a fare per un fratello…
Il familismo prevalse in Gramsci sul comunismo; prima i fratelli, poi i compagni.
O magari lui distingueva, come aveva già teorizzato in tema di violenza e cesarismo, tra un familismo “progressivo” e perciò giustificato e uno “regressivo”, deprecato, che riguardava invece gli altri…
Ma la storia più imbarazzante riguarda il terzo fratello, minore di due anni di Antonio; un fratello rimosso, di cui si tace nell’agiografia gramsciana. Perché Mario Gramsci fu fascista, dall’inizio e fino alla fine.
Mario era stato un adolescente estroverso e gioviale, a differenza di Antonio, pacato e posato, con cui però aveva grande intesa.
Fu avviato al seminario. Ma lui si rifiutò di indossare la tonaca, voleva sposarsi e disse ai suoi famigliari:
“Piuttosto mandateci Nino (Antonio veniva così chiamato in famiglia) in seminario. Lui alle ragazze non ci pensa e il prete può farlo”.
Si arruolò nell’esercito, poi andò a combattere volontario nella Prima guerra mondiale, tornò sottotenente. Diventò fascista e fu il primo segretario federale di Varese. Non lo dissuase né suo fratello maggiore né le bastonate dei “compagni” di suo fratello. Mario Gramsci fu fascista in disparte e non in carriera. A Varese, dove risiedeva, sposò una donna dell’aristocrazia lombarda. E una volta, nel 1921, l’anno della scissione di Livorno e della nascita del Partito comunista, Antonio andò a trovare suo fratello, stette da lui a Varese per una ventina di giorni.
Mario partecipò alla Marcia su Roma. Cercò di aiutare suo fratello Antonio durante il regime, gli scrisse lettere premurose quando era in carcere. Partì volontario per la guerra d’Abissinia e combatté nel ’41 in Africa settentrionale. Rimase fascista durante il regime, aderì poi alla Repubblica Sociale Italiana, fu fatto prigioniero, cercarono vanamente di fargli abiurare la sua fede fascista. Venne deportato in un campo di concentramento in Australia. Rientrò nel ’45 con la morte nel petto e morì poco dopo il rientro per le malattie contratte durante la prigionia. Morì in un ospedale di terz’ordine dimenticato da tutti, assistito dai suoi famigliari.
Nella disgrazia andò meglio a suo fratello Nino, pur vittima di due dittature, quella fascista e quella sovietica che non volle trattare per liberarlo, complice Togliatti. Antonio finì i suoi giorni assistito e amnistiato, curato nella grande clinica romana Quisisana dai medici Frugoni e Pulcinella, per conto dello Stato italiano, per una malattia che si portava dentro dall’infanzia e che il carcere aveva probabilmente acuito.
Certo, Mario Gramsci non può essere ricordato alla stessa stregua del suo fratello maggiore, che fu un grande del Novecento italiano. Ma con Mario Gramsci meritano di essere ricordati i fratelli minori, tali non solo in senso anagrafico, di un’Italia che fu dal versante sbagliato e ne pagò intero lo scotto, in silenzio e coerenza, dalla parte dei vinti. Fratelli minori e figli di dio minore o di un’Italia ritenuta minore. Nel ’36 Togliatti aveva rivolto un appello “Ai fratelli in camicia nera”; ma per Gramsci non era solo un modo di dire. Antonio e Mario, fratelli d’Italia, quell’Italia in rosso e nero, fraterna e fratricida.
Scritto da Marcello Veneziani
Approfondimento
Mario Gramsci, fratello del fondatore del Partito Comunista Italiano nacque a Sorgono nel 1893. Studiò in seminario, ma, ad un certo punto, buttò via la tonaca. Nel dicembre 1911 riuscì ad arruolarsi nell’Esercito. Partecipò alla Prima guerra mondiale ed anche nel dopoguerra continuò ad indossare la divisa conseguendo il grado di sottotenente. A Varese, dove risiedeva, sposò Anna Maffei Parravicini dell’aristocrazia lombarda.
Fascista della prima ora e primo segretario del Fascio di Varese, rimase ferito gravemente in uno scontro con i ‘sovversivi’. Partecipò anche alla Marcia su Roma, ad un certo punto lasciò la carriera militare per dedicarsi al commercio dei generi coloniali.
Partì poi volontario in Africa orientale e, all’età di 47 anni, partecipò, sempre come volontario, al Secondo conflitto mondiale. Combatté in Libia, nel 4° Reggimento “Libico”, col grado di capitano. Fatto prigioniero dagli australiani nel dicembre 1940, fu internato prima in Egitto e poi in Australia.
Dopo l’8 settembre 1943 divenne prigioniero non collaboratore. Per questo subì maltrattamenti pesanti e sevizie dagli inglesi prima e dagli australiani, poi. Ma non rinnegò mai il suo credo.
Rientrò a Varese molto provato dalla prigionia, nel settembre 1945. Due mesi dopo, a novembre, morì a soli 52 anni. La sorella Teresina fu maestra elementare e segretaria del Fascio femminile di Gilarza.
Per dire la Vostra, contattateci all'indirizzo di posta elettronica caudiumpatrianostra@gmail.com oppure tramite Twitter @SchiaffoLo
Da che parte va il mondo?
All'indomani dell'armistizio il pendolo oscillò violentemente verso sinistra: sia nel campo politico che nel campo sociale. Due imperi crollarono: quello degli Hohenzollern e quello degli Absburgo mentre un altro quello dei Romanoff li aveva preceduti. Sorsero delle repubbliche, molte troppe repubbliche, alcune delle quali come la tedesca non rappresentavano nemmeno un tentativo supremo disperato di patriottismo come la Comune del '71, ma un espediente per ottenere una pace wilsoniana.
Negli anni '19-20 tutta l'Europa centrale ed orientale è travagliata dalla crisi politica di consolidamento dei nuovi regimi aggravata e complicata dalla crisi che chiameremo socialista, cioè dai tentativi di realizzare qualcuno dei postulati delle dottrine socialiste.
Nei paesi vinti la crisi politico-sociale attinge forme acutissime — come in Prussia in Baviera in Ungheria — ma non risparmia nemmeno i paesi vincitori come la Francia e l'Inghilterra che devono fronteggiare giganteschi movimenti di masse e assume forme inquietanti — dal moto del caro-viveri del 1919 all'occupazione delle fabbriche nel 1920 — nel paese più povero fra i paesi vittoriosi: l'Italia.
L'impressione generale di quegli anni è che il mondo va ormai a sinistra con moto vorticoso: che la sinistra storica, non nel senso parlamentare italiano, è rappresentata dalla Russia la quale ha segnato la strada che tutti i popoli dell'Europa e del Mondo dovranno percorrere:
tutti i valori tradizionali vengono capovolti; l'eroismo di guerra è vilipeso e viene esaltata la diserzione;
tutte le gerarchie tradizionali spezzate (un cosacco diventa generalissimo della guarnigione rossa di Pietrogrado e un Krilenko qualsiasi viene elevato alla dignità di generalissimo dell'esercito sovietista) le gerarchie economico-tecniche — frutto di una lunga selezione e di un faticoso travaglio scientifico — non sfuggono ai destino delle altre: gli ingegneri delle officine Putiloft vengono cacciati nei forni. Sembra che da quel momento le officine non abbiano fuso altro materiale.
Anche in questo campo le diverse società europee ci offrono una scala di sfumature che sono in relazione col loro grado di civiltà e colla maggiore o minore profondità dello sconvolgimento sociale.
In Russia la famiglia dello Zar viene massacrata senza processo; in Germania quella degli Hohenzollern può andarsene in esilio. In Russia tutto il sistema economico, cosiddetto capitalistico, viene interrotto e paralizzato — anche attraverso l'eccidio fisico dei «borghesi» in Germania, compresa la stessa Baviera, non si è mai arrivati agli estremismi russi né in materia politica, né in materia sociale.
Tuttavia le linee di questa crisi del primo biennio del dopo-guerra europeo apparivano così paurose che molti elementi — in ispecie politicanti — delle classi borghesi si erano rassegnati all'ineluttabile e credendo oramai nell'imminenza del cataclisma, avevano abbandonato ogni forma di resistenza anche passiva: mentre i bottegai italiani consegnavano le chiavi alle Camere del Lavoro, gli ideologi della democrazia e gran parte dell'intelligenza borghese inclinavano a sinistra nel pensiero e nell'azione, molto spesso sventatamente riformatrice, diffondendo sempre più vastamente nelle masse la convinzione che il vecchio mondo — quello della destra — era destinato a morire.
Come tutta questa aspettazione si colorisse nell'anima e nell'azione delle masse lavoratrici, è cronaca triste di ieri.
Articolo pubblicato sulla rivista Gerarchia il 25 febbraio 1922
Brano: 'E Ziti
Anno: 1999
Roma, 3 dicembre 1985. Confronto tra il pentito di camorra Giovanni Pandico (già autore di calunnie ai danni di Enzo Tortora e successivamente considerato inattendibile) e il turco Mehmet Ali Ağca. Presidente della Corte: Severino Santiapichi..
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