LA PRIVATIZZAZIONE DELL’INDUSTRIA ALIMENTARE ITALIANA
“PRODI E DE BENEDETTI: ATTENTI A QUEI DUE”
C’era una volta l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale voluto nel 1933 da Benito Mussolini, poi conservato ed anzi rilanciato e ampliato dai partiti antifascisti nel dopoguerra. Si trattava di un ente pubblico che riuniva varie aziende statali o “partecipate” dallo Stato (un migliaio nel periodo di massima espansione), molte delle quali ai primi posti nelle graduatorie mondiali dei rispettivi segmenti economici: Credito Italiano, Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Finsider, Finmeccanica, Fincantieri, RAI, Iritecna, Telecom, Alitalia, Tirrenia, Società Autostrade, Alfa Romeo, Montedison e così via. All’IRI faceva capo anche la Società Meridionale di Elettricità (SME), che controllava in tutto o in parte le maggiori società italiane operanti nel comparto alimentare: Star, Cirio, Pavesi, Bertolli, De Rica, Motta, Alemagna, Italgel, Surgela, Supermercati GS, Autogrill, eccetera.
Lo spazio tiranno ci impone di tralasciare anche qui tanti fatti importanti e di saltare direttamente al 1985, quando il governo italiano decideva di cedere gli asset dell’industria alimentare (erroneamente giudicati “non strategici”) e il presidente Prodi impostava la trattativa con l’industriale Carlo De Benedetti, editore del quotidiano “La Repubblica” e nume tutelare dell’intesa fra Partito Comunista Italiano e sinistra DC, diventato da pochi mesi un industriale alimentare grazie all’acquisto della Buitoni.
Prodi e De Benedetti chiudevano subito un accordo preliminare che prevedeva il passaggio di mano del 64,36% del capitale della SME dietro un corrispettivo di 437 miliardi di lire (497, considerati gli interessi per la diluizione in 4 rate). Inoltre, al prezzo simbolico di 1 lira, la Buitoni avrebbe acquisito anche la consociata SIDALM (Motta e Alemagna), avente un valore d’avviamento negativo. Il prezzo convenuto equivaleva ad una valutazione di 1.107 lire per ciascuna azione SME, nel momento in cui la loro quotazione in borsa era di 1.275 lire. Quindi, prescindendo da ogni valutazione sull’enorme potenziale dell’industria alimentare italiana, uno sconto in partenza di 168 lire ad azione, più o meno il 13%.
Ma, mentre Berlusconi incominciava a cercare compagni di strada, al consiglio d’amministrazione dell’IRI giungeva già una prima offerta in aumento: 550 miliardi, offerti da uno studio legale milanese a nome di un gruppo rimasto anonimo. Seguiva l’offerta del sodalizio Berlusconi-Barilla-Ferrero, quantificata in 600 miliardi, ed altra offerta di pari importo da parte della Lega delle Cooperative. Ultima offerta, infine, da parte della Cofima per 620 miliardi.
A quel punto, però, il governo riconsiderava l’intera vicenda e decideva di non vendere più, né a De Benedetti né ad altri, né per 437 miliardi né per 620. Bettino Craxi aveva ottenuto il suo scopo – evitare che la SME venisse svenduta al peggiore offerente – e rilanciava sul tavolo della grande politica:
conservare la SME al patrimonio nazionale, ed anzi rafforzarla con adeguati investimenti per farne un grande polo agro-alimentare che fungesse da volano per l’agricoltura italiana.
Ancora un volo pindarico, e giungiamo al 1992, quando Craxi veniva travolto dal ciclone “mani pulite” e costretto a farsi da parte. Il progetto di creare un grande polo agro-alimentare aveva fatto, nel frattempo, discreti passi in avanti, ma si scontrava adesso con le nuove parole d’ordine che seguivano alla crisi del comunismo internazionale e, in Italia, alla acquisizione dei postcomunisti alla politica liberista. Queste nuove parole d’ordine erano:
globalizzazione dell’economia, fiducia dei mercati, riforme “strutturali” e, naturalmente, privatizzazioni.
Fra le prime ad essere destinate alla privatizzazione, ovviamente, erano le industrie alimentari, con conseguenze che – a modesto parere dello scrivente – si sono poi dimostrate catastrofiche per gli interessi nazionali.
C’erano stati, frattanto, alcuni passaggi che avranno una forte incidenza anche sulle privatizzazioni del settore agro-alimentare: nel giugno 1992 l’agenda delle nostre privatizzazioni era stata discussa in un summit fra banchieri inglesi e manager pubblici italiani che si era svolto a bordo dello yacht reale “Britannia” ancorato al porto di Civitavecchia; nel settembre 1992 la lira era stata svalutata del 30%, la qualcosa avrebbe determinato uno sconto di eguale valore su tutti i pacchetti azionari che saranno ceduti negli anni seguenti; nel 1993, infine, Romano Prodi era ritornato alla presidenza dell’IRI, dove rimarrà fino all’anno successivo.
In conclusione, fra il 1993 e il 1996, le aziende del gruppo SME venivano inesorabilmente privatizzate, depauperando l’economia reale della nazione italiana di un patrimonio vastissimo e, soprattutto, ricco di potenzialità enormi. Nonostante ciò, e nonostante i prezzi pagati fossero calcolati in lire che la svalutazione aveva privato di quasi un terzo del loro valore, la vendita di quelle aziende fruttava all’IRI (e quindi allo Stato italiano) qualcosa come 2.044 miliardi di lire. Altro che i 437 miliardi del patron de “La Repubblica”!
A conclusione dell’intricata vicenda, comunque, ad essere rinviato a giudizio era il solito Berlusconi, accusato di avere corrotto alcuni magistrati per impedire che De Benedetti realizzasse un buon affare.
Infine, secondo il nostro costume, segnaliamo le fonti da cui abbiamo desunto le notizie che abbiamo citato. Si tratta, al 90%, di fonti assolutamente neutre, come l’esauriente voce di Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Vicenda_SME. Per chi voglia aggiungere un pizzico di sale all’approfondimento, poi, è sufficiente digitare PRODI - DE BENEDETTI su un qualunque motore di ricerca, e se ne leggeranno delle belle…
Scritto da Michele Rallo
Nessun commento:
Posta un commento