CARO INGRAtO
Visto che Lo Schiaffo321 è libertario, come Vi siete autodefiniti,
invio un articolo che forse darà fastidio a gli ultimi rossi restati in
circolazione.
Complimenti per la pubblicazione ad maiora semper e saluti dalla
Corsica Italiana.
Addio, Caro (ex) Camerata, Pietro Ingra(t)o.
Firmato Antonio Cossu.
Poeta, eretico, un politico lacerato dal dubbio eppure mai
domo. Un incendiario di anime. Un ribelle tra uno stuolo di conformisti. Anche
se le sue idee, , quelle cui ancorò la sua salda esperienza di comunista
convinto, cresciuto e pasciuto al canto di Bandiera Rossa, quelle idee che non
lo abbandonarono mai, conformiste in parte lo furono. Pietro Ingrao se ne è
andato, alla veneranda età di 100 anni. Personaggio complesso. Politico avvezzo
alla critica e, qualche volta, anche all’autocritica. I suoi discorsi nei
lunghi comitati centrali del vecchio partito comunista si inerpicavano lungo
sentieri immaginifici, scavavano nelle coscienze, si addentravano nei meandri
psicologici delle folle, vibravano di fervore culturale e incutevano rispetto
tra i compagni, non tutti in grado di seguirlo lungo quelle traiettorie del
pensiero. La sua era una concezione movimentista della politica. Ma di un
“movimentismo” che non sfuggiva mai alle maglie dell’apparato. Paradossalmente,
ingabbiato nelle logiche di partito. Il Partito, appunto. Suoni antichi di un diapason
che disperde le note nella notte dei tempi. Quando Enrico Berlinguer e Aldo
Moro tracciarono il perimetro del “compromesso storico”, Ingrao ne apparve
turbato. Amava ripetere: “Non mi avete convinto”. Non lo convinsero neppure i
compagni del Manifesto cui aveva dedicato anima e corpo. Quando decisero di
abbandonare la baracca (il Pci), lui non li seguì. Salvo poi, a vecchiaia
avanzata, riconoscere di aver commesso un errore. Di errori, Ingrao, in verità,
ne fece parecchi. Ne ammise anche tanti. Come quella storiaccia dell’invasione
dell’Ungheria, dei carrarmati sovietici lungo le strade di Budapest. Lì, il
“ribelle” si schierò senza remore dalla parte degli invasori, di chi calpestava
il diritto dei popoli e schiacciava con i cingolati la resistenza di operai e
studenti.
Ingrao si oppose a Berlinguer e ad Occhetto.
Poi, quando Occhetto prese la strada della Bolognina per
riformare il Pci, chiudere con Togliatti e Berlinguer, inaugurare la stagione
della svolta socialdemocratica di falce e martello, Ingrao alzò le barricate.
In difesa dell’idea comunista. Della integrità di una fede, di una passione.
Eppure, quella fede e quella passione, non erano state le sole della sua vita.
Come poeta vinse a Lucca il “Premio poeti del tempo di Mussolini”, con una
lirica dal titolo Coro per la nascita d’una città, con la quale celebrava la
fondazione di Littoria e la mussoliniana bonifica delle paludi pontine. Narrano
le cronache giornalistiche che fu premiato da Galeazzo Ciano “in una cornice
stupenda di popolo all’aperto, adunati i fascisti di tutta la zona”. Ingrao
militò prima nel partito fascista, poi nel partito comunista. Quando era
fascista prese parte ai Littoriani della cultura, misurandosi in più gare e
classificandosi a Roma nel convegno dedicato all’organizzazione del PNF. Da
comunista, diresse l’Unità, entrò in Parlamento dalla prima legislatura,
raggiunse nel 1976 la presidenza della Camera dei Deputati. Un mutamento di
bandiera. Non fu il solo. Giorgio Amendola, comunista anche lui, dedicò alcune
pagine ai rapporti tra politica e cultura durante il Ventennio. “Tranne poche
eccezioni – scrisse – gli intellettuali in massa diedero la loro adesione al
fascismo”. Un’adesione che “non fu sempre manifestazione di viltà, ma, invece,
molto spesso, di intima convinzione”.
Ingrao faceva parte di questa schiera.
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